L'Uomo Arancia

Letteratura d'assalto. In crisi. Dal 1989

DE DEFINITIONIBUS

 Detesto l'olio sulla tastiera. Scrivere... scrivere ancora. Una nocciolina, piuttosto... la buccia si sgretola davanti a me, ma no... non sulla tastiera. Quella dev'essere pulita. Deve rimanere pulita.
Preferisco la neve... fuori dalla finestra che cade a fiotte lenta, ben visibile... tutto pulito, con la neve.
Sono necessità da soddisfare nell'immediato, senza nessuna attesa. È un bisogno che non si può sostituire in un altro momento, che non sai esattamente quando tornerà... e ci si ferma solo quando ci si sente soddisfatti, quando quella necessità è nulla, almeno per il momento. Ma la si allena, sì... la si allena. Si ha fame, in quel momento. Una fame trasparente fatta di polpa, di sangue, di cruda verità.
Sono un cannibale. La gente viene mangiata, divorata, sbranata. Fatta a pezzi per essere assimilata attraverso i miei occhi, il mio tatto, la mia bocca... gli odori. Detesto gli odori forti, i gusti forti. Preferisco la neve... niente sapore, niente colore, niente odore. La nocciolina scricchiola fra le mie mani mentre viene frantumata, rotta, aperta... e poi carta. Il rumore della pagina che viene accartocciata, per poi aprire la bocca. Un gesto egoista, tutto per me, solo sotto una lampada, di fronte alla finestra. E la neve che cade.
Veloce, veloce, avido, scrivo senza riflettere – ci sarà tempo, poi. Viaggio, vedo, sento, non penso e scrivo tutto, è un fiume, un fiume cazzo, un fiume di merda che piove dal cielo. Alzo gli occhi – è neve. C'è vita, c'è ancora vita, tutto quanto vive e mi mormora, ma ora era tanto, sì... era tanto, si muore, era troppo, ed è roboante il circo di voci che mi circondano, delle persone che ho visto, della gente che ho conosciuto... poesie, poesie viventi dappertutto, e adesso sono in piedi che mi guardano e mi indicano, e gridano e strillano...
Donne in ginocchio, una gonna viola a fiori, canotta nera, scalza bagna i suoi piedi di lacrime e benzina sull'asfalto rovente mentre lei piscia ubriaca, piange e strilla con le mani fra i capelli, l'uomo ha i calzoni troppo alti e la pancia troppo sporgente...la polo gialla è sbiadita, e la moglie? Che scopa feroce con l'amico mentre lui va a lavorare ridicolo penoso. Un morto senza speranza, perde i capelli ma non dice niente. Dopo i quaranta può essere anche normale, e che cazzo...
Vita? Sì. Quanta? Quanto la neve. Pulisce nel silenzio del cielo grigio senza emozioni. Copre la pioggia di vita che mi ha nascosto in questi mesi di silenzio, siedo da solo fra quattro mura e vengo colpito da un proiettile sparato dall'interno. C'è bisogno, e la sirena squilla sovrana.
Mi alzo? Sì, mi alzo. Smetto di fare qualsiasi cosa stia facendo, ché il bisogno è lì, e ho di nuovo fame. Mi ricordo che il mondo ha sempre fame e io sono un cannibale. Mi svuoto... il tappo è tolto, forse. Forse è stato solo leggermente svitato... tremo. Tremo per la frenesia causata dal gas che è stato agitato, questa volta, e che sta reagendo chimicamente al silenzio del mio ultimo periodo. Vita. Lavoro. Tempo.
Niente vale quanto la mia tastiera pulita e senza olio. Qualche briciola di nocciolina, simile a delle minuscole scheggie di legno che faranno per sempre parte di me, della mia mente, del mio corpo. Muoio.
Lo scotch può aiutare ad asciugare la pioggia in cui sono stato immerso, congelato, impegnato a nuotare, a galleggiare, a godere del sole che batteva forte sopra la mia testa. Troppo benessere, troppo di tutto, cambiamenti viaggi soldi fortuna sentimenti. Troppo di tutto, e silenzio dentro. Un po' di riposo è stato concesso ma non mi aspettavo questo, non mi aspettavo questo, non mi aspettavo niente di questo. Non era in programma. Programma? La vita degli altri. La mia no, la mia è una schiavitù. Schiavo di un bisogno che posso uccidere quando voglio, basterà non asecondarlo. È una dipendenza al contrario, un'antidipendenza, un'indipendenza.
Il vortice esiste ancora, lo sento e mi ha travolto, è come se non dipendesse più da me, è un essere vivente che si è risvegliato e mi ha posseduto, il mio corpo è suo, le mie dita, la tastiera, gli occhi sono usati da lui, io non ci sono più e lui sta riprendendo possesso.
Si è svegliato, grattato gli occhi, stiracchiato. Ora si è seduto alla mia scrivania e si sta rimettendo in moto. Sbadiglia e puzza d'alito, ma questo è quanto. Se lui riprende, la mia vita sarà diversa, e non sarà più mia. Io nel frattempo mi fermo e godo. Sorrido e sghignazzo mentre guardo quello che quel tizio sta facendo. Un nome? Non ce l'ha mica, ma non ce l'ho neppure io. Non lo voglio avere, non glielo voglio dare. Non lo conosco, non so chi sia, non so cosa farà cosa dirà, cosa scriverà. Non so cosa pensa, io ammiro, guardo, mi piace e non lo disturbo. Io vivo la mia vita, ma quando lui decide devo sedermi e aprire il computer. Devo usare la tastiera senza olio, la neve fuori è ancora fitta, da stamattina che pulisce la vita, il mondo, l'aria, la gente. La copre di bianco e ne rallenta le reazioni, ne smussa gli spigoli, ne nasconde la merda che presenta.
Whisky. Il suo sapore mi regala la connessione con gli occhi del ladro. Il ladro che mi ha rubato il corpo per fare i cazzi che gli pare, per scrivere, per dire, per parlare, per svuotarmi di quel liquido trasparente chiamato acqua, sedimentata sul fondo del mio barile e che melmosa inizia ora ad uscir fuori. È scivoloso, passare sulla pozza che ho versato, diventa pericoloso camminare sul mio vomito d'acqua trasparente e melmosa. Un po' marrone, un po' verdastra, devo averne accumulata tanta, nella mia riserva. Tempo per pensare, tempo per guardare, o ascoltare le emozioni. È tutto troppo breve, il pericolo che questa scia termini è troppo elevato per non dar retta alla pistola che mi è stata puntata alla tempia. E fanculo a tutto, fanculo al resto, fanculo a ciò di cui la gente parla o vuole parlare, vorrebbe parlare o stare a sentire, e magari ascoltare. Non c'è volontà, non c'è voglia, c'è solo bisogno. Perdere tempo, sì, perché non posso fare altro. Ho da lavorare, ho da pensare, ho da sistemare. I doveri. Questa è una necessità, questo è il mio respiro, questa è la mia vita, e non posso farne a meno quando la volontà si sveglia così dirompente. Mi ha svegliato di notte, il ladro. Ho sentito dei rumori che mi hanno svegliato, mentre dormivo con la mia compagna accanto, il suono e il profumo del suo respiro, dei suoi capelli, della sua pelle. Mi ha svegliato e ho deciso di star zitto e fermo nel mio letto, sotto le coperte. La vita mi ha svegliato mentre dormivo ma non le ho dato ascolto. Giuro, giuro che ho resistito quanto più potevo, ma ora è arrivato il momento e non posso pù fermarmi, non posso più frenarmi, non posso più che dare retta agli ordini che mi vengono impartiti.
Il fucile carico sulla schiena, quasi mi mancava la sensazione della paura e dell'inarrestabilità. Le emozioni devono avere il tempo di rigenerarsi, ma le mie continuano a fluire continue in massa come una sostanza gelatinosa gialla e brillante, riempiono ogni vena, ogni arteria, ogni fottutissimo capillare e io continuo a guardare il ladro che mi possiede e si impossessa di ciascuno dei miei nervi, di ciascuno dei miei muscoli. Lo guardo e sento il ticchettio dei tasti continuo, fluire piombando ai miei timpani col più dolce dei suoni che abbia mai sentito, un suono che ricopre interamente la gamma uditiva sensibile e ogni altro fattore diventa irrisorio. Niente può distrarmi, adesso, niente può distogliermi dall'avere un fucile puntato sulla schiena, una pistola sulla tempia. Non la fame, non la sete, non la volontà, non il dovere, non l'amore, non l'odio. Devo dare retta a ciò che sono, devo fare ciò che mi viene indicato di fare. Ci sono stati degli stimoli, ma non erano vere necessità. L'impulso è oggettivo, diventa impossibile arrestarsi, diventa meravigioso procedere, andare avanti, compiere, creare, annullarsi e concedere il proprio corpo ad un qualcosa... un essere... forse...
Diventa buio in fretta, diventa buio così in fretta che quando alzo gli occhi per vedere la neve, fatico a capire se ancora nevica oppure no. La lampada è diventata ora LA LUCE di tutta la stanza, la luce di tutto il palazzo, della città, il sole, è la mia vita. Mi permette di vedere quello che stanno facendo col mio corpo, quello che qualcuno... qualcosa sta compiendo, io non ci sono, resto distante, seduto con le gambe incrociate a guardare, a sorridere, impegnato a ripulirmi di troppo tempo di silenzio, a purificare il mio sangue con una nuova acqua, una nuova acqua, serena e fredda, gelida, pulita e candida.
In questo momento io non sono, non ho identità, non ho corpo – perché il corpo l'ha preso lui – ma sono un malato. Mi si sta facendo una trasfusione di vita, sto dando la vita vecchia per ricevere quella nuova, ma quella nuova non mi viene inserita. Sento di doverla respirare, bere, mangiare, e sento di diventare un cannibale, perché la vita è vera solo quando la si strappa alle altre persone, nel modo più sanguinario possibile, nel modo più crudo, cruento e crudele che si conosca.
Io prendo le parole dalle immagini che non vedo, prendo le idee dai suoni che non sento. È una trasposizione di menti, un trapianto di visioni, le persone vivono le loro vite mentre io trasparente gli passo accanto, respiro e inietto nel mio dentro la loro vita. Queste vite si sovrappongono e si miscelano in una perfetta sincronia metabolica, fino a diventare indipendenti. Organismi sensoriali assimilati che si dissimilano, che si staccano da ciò che li ha generati, come uno spermatozoo che diventa feto e che è pronto ad essere espulso senza una concreta volontà, ma naturalmente, spontaneamente e indipendentemente.

Sono una madre che dà vita ad un essere che potrebbe nascere mostro, perché generato da un padre violento, canaglia, vigliacco, bugiardo. Io partorisco senza sapere cosa faccio, senza conoscere come prendermi cura del mio figlio, senza avere nessuna idea su ciò che sto creando. Lo faccio perché sono gravido, e non posso fare a meno di partorire.

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