«Al
servizio della Compagnie Pordurière del Piccolo Togo sgobbava dunque
insieme a me, come ho detto, negli hangar e sulle piantagioni, un
gran numero di negri e di poveri bianchi del mio genere. Gli
indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone,
conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionti
dall’educazione pubblica, fanno da soli.
«Il bastone
finisce per stancare chi lo maneggia, mentre la speranza di diventare
potenti e ricchi di cui i bianchi s’ingozzano, quella non costa
niente, assolutamente niente. Che non ci vengano più a decantare
l’Egitto e i Tiranni tartari! Quei dilettanti antiquati erano solo
dei pataccari pretenziosi nell’arte suprema di far spremere alla
bestia verticale il massimo sforzo sul lavoro. Non sapevano, quei
primitivi, chiamare “Signore” lo schiavo, e farlo votare di
quando in quando, né pagargli il giornale, né soprattutto
portarselo in guerra, per fargli sbollire le passioni. Un cristiano
di venti secoli, ne sapevo qualcosa, non si trattiene più quando
davanti a lui viene a sfilare un reggimento. La cosa gli fa sprizzare
troppe idee.»
Viaggio
al termine della notte,
di L. F. Céline,
1932
Sei
uno di quelli che ha trovato una delle mie poesie
in mezzo a un libro appena acquistato. O l’hai trovata in una
scatola di scarpe che volevi provarti, dietro il pacco della pasta
sullo scaffale, al supermercato… sul sedile del treno, di un
cinema, di un teatro. Hai trovato una mia poesia nei cessi della
stazione. O te la sei ritrovata sotto al culo dopo esserti seduto al
tavolino di un bar. Non ti dirò chi sono. Ti dirò chi non
sono. Non
sono l’uomo
arancia.
Odio
il lavoro
e tutto ciò che mi stanca. Odio ogni tipo di fatica
che non sia direttamente finalizzata al raggiungimento di un fine
pratico. Se la fatica è atta alla conquista di un mezzo da usare per
avere qualcos’altro, allora io non ci sto. Se la fatica mi procura
solo
dei soldi,
io non ci sto.
La
fatica è l’unico mezzo degno per l’ottenimento di qualcosa. I
soldi sono un mezzo indegno, deviano la mia attenzione, e li detesto.
Come
vivo? Lavorando, naturalmente. E no, non mi pagano in cibo. Mi pagano
in denaro.
Sono incoerente? No. Lavoro il meno possibile. So quello che voglio,
so quanto mi serve per ottenerlo, e lavoro solo
quel tanto. Niente di più. Non voglio più
soldi di quelli che uso. Preferisco avere tempo
da perdere. Preferisco annoiarmi. Preferisco sprecare i miei giorni
seduto sul mio divano di fronte alla TV spenta. Per me la ricchezza
misurata in tempo è più importante di quella misurata in denaro. E
ne sono avido.
Piuttosto
che lavorare, preferisco non fare niente. Preferisco il riposo alla
fatica. Ritengo il lavoro necessario
per ottenere ciò che è necessario. Lo ritengo superfluo quando mi
fa ottenere ciò che è superfluo.
Cosa
è necessario e cosa è superfluo, sono fatti miei. Proprio come sono
fatti tuoi cosa è necessario e cosa è superfluo per
te.
Se non lo capisci tu, allora, caro mio, in questo momento mi sto
rivolgendo all’uomo
arancia.
Esco con una
ragazza. Elisabetta. Bella, fisicamente. Uno sguardo sveglio, ma allo
stesso tempo innocente, giovane… venticinque anni.
Ci
sediamo al tavolino di un bar
e le chiedo di dirmi di lei. La conosco, ci conosciamo, ma non così
bene. Ci potrebbe essere tanto da dire.
Inizia
a parlare
e scopro che ha già fatto di tutto. Ha lavorato, si è laureata, si
è specializzata, ha fatto un corso
di ulteriore specializzazione
ed è stressata perché vuole iniziare a lavorare per davvero…
cioè,
spiega,
non con dei contratti di apprendistato,
dove viene segregata a stare a guardare gli altri che lavorano. Dove
è reietta nella stanza delle fotocopie. Lei
vuole proprio lavorare.
È
un’insegnante di ginnastica, conosce delle tecniche di allenamento
appena collaudate, vuole metterle in pratica, ma poi inizia con la
solita lagna
sulla scarsa valorizzazione dei giovani.
Non
mi parla di obiettivi, di progetti,
di desideri, di sogni…
Elisabetta sembra voglia solo lavorare.
Era evidente che ci fosse un problema, così mi viene da chiederle
perché, sperando di aver capito male.
– Perché cosa? –
fa lei.
– Perché
vuoi lavorare?
– In che senso, scusa?
Le
spiego che per lavoro
si intende qualsiasi movimento fisico atto alla presa di un oggetto
esterno al nostro corpo. Una fatica, uno sforzo,
un gesto non fine a se stesso, ma avente come obiettivo
qualcos’altro. Una bottiglia d’acqua, un tronco di legna, un
tozzo di pane, un pezzo di carne.
– Si lavora per i frutti di
quel lavoro – dico, ingenuo.
Ma
Elisabetta
si perde,
e non afferra il concetto.
Eccoli,
i risultati. Ecco il frutto
di un sistema
che
sembra essere stato programmato
quasi alla perfezione.
Ci siamo arrivati, a questo punto. Forse in pochi se l’aspettavano,
ma ci siamo arrivati.
Elisabetta
è la tipica persona
brava, buona, sincera… è la classica persona
onesta.
Normale.
Perfettamente integrata nel mondo sociale contemporaneo. Elisabetta,
quando inizierà a lavorare, sarà l’uomo
arancia.
È
esattamente
il tipo di
persona che potrebbe avere dei seri problemi di stabilità mentale,
nel corso della sua vita.
Lei
vuole lavorare.
Non
le importa il motivo.
Vuole
semplicemente lavorare perché è così che si fa. È così che si
vive, e
lei desidera quello.
ART. 1
L’Italia è una
Repubblica democratica, fondata sul lavoro
Che
uno debba lavorare, è fin troppo chiaro. Ma il perché,
beh, questo non
te lo può certo
dire
la Costituzione…
questo lo devi sapere tu.
Ognuno lavora quanto gli
pare.
Oh, è
un brutto periodo
per fare questa affermazione, dimenticavo…
la crisi,
certo…
sono tutti contro i giovani,
è vero…
allora
diciamo che è così che dovrebbe essere,
va bene?
Ognuno dovrebbe
fare
gli accidenti che vuole.
Va meglio, così?
Nessuno
regala
niente a nessuno.
Questo
è il senso dell’Art. 1.
Bella
merda. Però almeno non dice che devi
lavorare a
caso.
Voglio
dire, se
non hai esigenze, chi te lo fa fare, di usare un sacco di tempo
lavorando per chissà
che cosa?
Se decidi di aiutare
qualcuno, sei un volontario,
e a me sta bene.
Altrimenti, caro
mio, devi
essere uno schiavo
nel profondo, per fare una cosa del
genere. No?
Ti
stai preoccupando…
no,
stai sereno… sei in ottima compagnia.
La
gente che
lavora
per niente è un’infinità. Lo fanno in continuazione.
Pensa a quante persone, dopo essere andate in pensione,
continuano a lavorare. Non ne
hanno
bisogno,
loro, di soldi…
glieli dà lo Stato senza che loro alzino un dito… durante la loro
vita, durante i loro quarant’anni
di lavoro, loro se li sono già
procurati, i soldi per la vita.
Hanno lavorato più del necessario
proprio
per avere i soldi anche per la vecchiaia… hanno investito una vita
intera per potersi riposare da vecchi, e invece
cosa gli succede?
Succede
che
questi qui, dopo
aver perso il lume della ragione, continuano
a lavorare.
È
assurdo, lo so. Sono
diventati dipendenti
dal lavoro.
Il mondo, la società
li ha disumanizzati, gli ha strappato l’anima
e l’ha buttata nel cesso.
Insieme
alla loro libertà. E da schiavi liberti che sarebbero stati, hanno
deciso di rimettersi il guinzaglio al collo.
Non
gli
importa
chi lo mantenga, quel guinzaglio. Non gli
importa
dove li conduca. Il guinzaglio per
loro è
sicurezza. Il guinzaglio è la loro unica possibilità di sapere cosa
fare. La loro unica occasione per non perdersi nel mondo, per non
sentirsi smarriti in quell’oceano infinito che è la loro libertà.
Così vasta, così profonda, così sconosciuta
da essere addirittura temuta. Ed
evitata.
Ah,
stai attento, tu che mi leggi! Io non parlo mica di chi pratica il
suo lavoro per passione! Artisti, sportivi, viaggiatori,
documentaristi… questa è gente che il suo lavoro lo farebbe anche
gratis! Gente che vede nel suo lavoro la sua vita stessa! Gente che
deve lavorare, schiavizzarsi per sopravvivere, magari, perché il
loro hobby
non gli frutta un soldo… ma loro lo praticano lo stesso! Quelli
sono passatempi
che possono fruttare soldi, naturalmente… ma che vengono praticati
a prescindere dal guadagno! Mica parlo di quella gente lì, io, eh!
Io
parlo delle persone la cui libertà è proprio il lavoro
inteso come obbligo da svolgere. Sì, proprio come il titolo di
questo post. Arbeit
macht frei.
Il lavoro
rende liberi.
Chi lo diceva? I nazisti? Ah sì…?
L’individuo
è morto. E
ha sempre più spesso bisogno di una guida.
Ecco
perché sono
pazzi.
Lavorano senza sapere il perché.
Quale
persona veramente sana compirebbe coscientemente
degli
sforzi vani?
Senza
conoscerne la ragione, dico… quanta gente sana lo farebbe? Fatica,
sudore, pressioni, stress,
stanchezza, affanno… in una parola, lavoro.
Se lavoro per una ragione, ci può stare, ma se quella ragione non la
conosco, allora no. Allora no…
Va
bene, ti faccio un esempio pratico. Vai in palestra? Sì? Ci andresti
lo stesso se non otterresti alcun risultato a livello fisico?
Faticheresti in quel modo, se non ti permettesse di scaricare lo
stress? Non mi farei neppure una sega, se non fosse piacevole!
Ogni
nostra azione deve essere motivata e spesso, un motivo per cui la
gente,
la stragrande maggioranza degli esseri umani lavora otto
ore al
giorno, ogni giorno, per quarant’anni… beh, spesso questo motivo
non c’è. Mi correggo. Questo motivo non c’è quasi mai! Si
potrebbe lavorare molto meno e mantenere la stessa qualità di vita.
E non voglio esagerare col dire che si vivrebbe meglio… di più…
Quello
che ci tengo a dirti, è che ritengo
fondamentale sapere il motivo per cui mi spacco
la schiena ogni santo giorno.
È troppo importante avere
una spiegazione sulla sveglia che mi butta giù dal letto ogni
mattina, sul capo che s’incazza quando faccio un errore, sul
collega che mi toglie il saluto, sullo
stress che non me lo fa drizzare,
sulle scenate isteriche di mia moglie, sull’impotenza, sui brufoli
al culo, sulle emorroidi, sulle code al supermercato, sulle tasse,
sul bollo auto e sul canone RAI, su
Canale 5
e sui brutti voti di mio figlio a scuola, sulla cellulite al culo
della cassiera sexy e sull’aumento della benzina, sulle guerre in
Medio Oriente e sui troppi stranieri nel campionato italiano, sulla
malapolitica e sull’umidità al soffitto, sul mio vicino di casa
rumoroso e sulle
pulci fra i peli del mio cane e sulle puttane di Berlusconi e sulle
gnocche che vanno solo coi ricchi e sulle basi NATO e sui satelliti
spazzatura e sulle barche di lusso…
La
gente
non si dà una ragione per tutto questo… la gente se ne sbatte le
palle, e non conosce il motivo
per cui ingurgita
tutta quella merda.
La
mangiate forse perché sa di nutella? Perché profuma? Perché avete
paura di annoiarvi? Va bene… va bene tutto… ma io ho assoluto
bisogno
di una spiegazione per cui me la prendo in faccia
ogni giorno, quella roba.
E
non dico di essere un filosofo… non dico mica di voler trovare il
primo motore dell’universo… macché! Ma chi se ne frega,
dell’universo! È a me stesso, che devo dare una spiegazione!
Giusta o sbagliata che sia, ho bisogno di una ragione…
una scusa, se preferisci…
devo
giustificarmi con me stesso! Una scusa, cazzo, dovrò pure
inventarmela, per potermi fregare in questo modo! Altrimenti, quella
parte del cervello che mi è rimasta sana, mi manda a fare in culo
pure lei… ed è così che la gente impazzisce
per davvero! No?
La
coscienza
di
quello che fanno le persone è troppo
spesso
ignota… troppo lontana dalle loro vite… sono troppo distanti
dalle azioni che compiono quotidianamente, questi qua… non sanno
neanche bene che cosa stanno facendo, perché, per come, per chi…
per chi?
Sanno
che si fa così, che bisogna fare così, e allora lo fanno. Gli hanno
detto, gli hanno insegnato, hanno sempre visto la gente, i loro
vicini, i loro genitori, i loro nonni, i loro zii, le famiglie dei
loro amici, gli attori del cinema… tutti, tutti,
cazzo, tutti fanno così! Perché loro dovrebbero fare diversamente?
Perché dovrebbero essere diversi
dagli altri? Quali forze, quale coraggio, quale mente, quali idee
userebbero, se non facessero ciò che hanno sempre saputo
di dover fare?
Sembra
quasi
un insieme di ansie, paure e angoscie programmate, stese, studiate a
tavolino affinché tutti,
o quasi, ne siano vittima.
No, non
sono un complottista, anche se a volte ci sono tentato.
È
la crisi dell’individuo,
che mi fa
incazzare. È
il rapimento della personalità, è un processo
sociale, economico e politico volto
alla
canalizzazione, agglomerazione e accorpamento che permette di
controllare le diversità in un momento solo… sono talmente poche,
le differenze che ci separano…
Quest’omologazione
permette di fare i conti con un numero di individualità
così
scarso che
ci sarebbe di che preoccuparsi…
culture,
tradizioni, lingue, banche, monete, politiche, usi e costumi, feste e
religioni, vestiti e cibi e bevande e divertimenti… tutto sta
procedendo verso un’unità sempre più forte, sempre meno
intaccabile, e loro,
ingenui, continuano a dare la loro vita in cambio di un fare
in
potenza.
In cambio di una possibilità futura.
In
cambio della malsana idea di fare questo, quello e quell’altro “una
volta che finisco di lavorare”.
Non
sanno che quando decideranno cosa fare dei frutti del loro lavoro
potrebbe già essere troppo tardi. L’illusione della vita eterna è
ancora troppo diffusa fra le menti delle persone di oggi.
La vecchiaia non viene neanche lontanamente considerata come si
dovrebbe.
Uomini arancia. Pieni di
succo. Gustosi. Vitali. Belli. Presi e usati senza sapere da chi, per
chi, per quale ragione.
L’educazione
pubblica, dice Céline.
L’abitudine a lavorare per un tempo prestabilito chissà da chi,
incondizionatamente accettata da chiunque voglia appartenere a questa
società.
Abbiate
almeno la dignità di farvi bastonare,
allora.
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