L'Uomo Arancia

Letteratura d'assalto. In crisi. Dal 1989

ARBEIT MACHT FREI

«Al servizio della Compagnie Pordurière del Piccolo Togo sgobbava dunque insieme a me, come ho detto, negli hangar e sulle piantagioni, un gran numero di negri e di poveri bianchi del mio genere. Gli indigeni, loro, funzionano insomma solo a colpi di bastone, conservano questa dignità, mentre i bianchi, perfezionti dall’educazione pubblica, fanno da soli.
«Il bastone finisce per stancare chi lo maneggia, mentre la speranza di diventare potenti e ricchi di cui i bianchi s’ingozzano, quella non costa niente, assolutamente niente. Che non ci vengano più a decantare l’Egitto e i Tiranni tartari! Quei dilettanti antiquati erano solo dei pataccari pretenziosi nell’arte suprema di far spremere alla bestia verticale il massimo sforzo sul lavoro. Non sapevano, quei primitivi, chiamare “Signore” lo schiavo, e farlo votare di quando in quando, né pagargli il giornale, né soprattutto portarselo in guerra, per fargli sbollire le passioni. Un cristiano di venti secoli, ne sapevo qualcosa, non si trattiene più quando davanti a lui viene a sfilare un reggimento. La cosa gli fa sprizzare troppe idee.»

Viaggio al termine della notte, di L. F. Céline, 1932

Sei uno di quelli che ha trovato una delle mie poesie in mezzo a un libro appena acquistato. O l’hai trovata in una scatola di scarpe che volevi provarti, dietro il pacco della pasta sullo scaffale, al supermercato… sul sedile del treno, di un cinema, di un teatro. Hai trovato una mia poesia nei cessi della stazione. O te la sei ritrovata sotto al culo dopo esserti seduto al tavolino di un bar. Non ti dirò chi sono. Ti dirò chi non sono. Non sono l’uomo arancia.
Odio il lavoro e tutto ciò che mi stanca. Odio ogni tipo di fatica che non sia direttamente finalizzata al raggiungimento di un fine pratico. Se la fatica è atta alla conquista di un mezzo da usare per avere qualcos’altro, allora io non ci sto. Se la fatica mi procura solo dei soldi, io non ci sto.
La fatica è l’unico mezzo degno per l’ottenimento di qualcosa. I soldi sono un mezzo indegno, deviano la mia attenzione, e li detesto.
Come vivo? Lavorando, naturalmente. E no, non mi pagano in cibo. Mi pagano in denaro. Sono incoerente? No. Lavoro il meno possibile. So quello che voglio, so quanto mi serve per ottenerlo, e lavoro solo quel tanto. Niente di più. Non voglio più soldi di quelli che uso. Preferisco avere tempo da perdere. Preferisco annoiarmi. Preferisco sprecare i miei giorni seduto sul mio divano di fronte alla TV spenta. Per me la ricchezza misurata in tempo è più importante di quella misurata in denaro. E ne sono avido.
Piuttosto che lavorare, preferisco non fare niente. Preferisco il riposo alla fatica. Ritengo il lavoro necessario per ottenere ciò che è necessario. Lo ritengo superfluo quando mi fa ottenere ciò che è superfluo.
Cosa è necessario e cosa è superfluo, sono fatti miei. Proprio come sono fatti tuoi cosa è necessario e cosa è superfluo per te. Se non lo capisci tu, allora, caro mio, in questo momento mi sto rivolgendo all’uomo arancia.

Esco con una ragazza. Elisabetta. Bella, fisicamente. Uno sguardo sveglio, ma allo stesso tempo innocente, giovane… venticinque anni.
Ci sediamo al tavolino di un bar e le chiedo di dirmi di lei. La conosco, ci conosciamo, ma non così bene. Ci potrebbe essere tanto da dire.
Inizia a parlare e scopro che ha già fatto di tutto. Ha lavorato, si è laureata, si è specializzata, ha fatto un corso di ulteriore specializzazione ed è stressata perché vuole iniziare a lavorare per davvero… cioè, spiega, non con dei contratti di apprendistato, dove viene segregata a stare a guardare gli altri che lavorano. Dove è reietta nella stanza delle fotocopie. Lei vuole proprio lavorare.
È un’insegnante di ginnastica, conosce delle tecniche di allenamento appena collaudate, vuole metterle in pratica, ma poi inizia con la solita lagna sulla scarsa valorizzazione dei giovani.
Non mi parla di obiettivi, di progetti, di desideri, di sogni… Elisabetta sembra voglia solo lavorare. Era evidente che ci fosse un problema, così mi viene da chiederle perché, sperando di aver capito male.
Perché cosa? – fa lei.
Perché vuoi lavorare?
In che senso, scusa?
Le spiego che per lavoro si intende qualsiasi movimento fisico atto alla presa di un oggetto esterno al nostro corpo. Una fatica, uno sforzo, un gesto non fine a se stesso, ma avente come obiettivo qualcos’altro. Una bottiglia d’acqua, un tronco di legna, un tozzo di pane, un pezzo di carne.
Si lavora per i frutti di quel lavoro – dico, ingenuo.
Ma Elisabetta si perde, e non afferra il concetto.

Eccoli, i risultati. Ecco il frutto di un sistema che sembra essere stato programmato quasi alla perfezione. Ci siamo arrivati, a questo punto. Forse in pochi se l’aspettavano, ma ci siamo arrivati.
Elisabetta è la tipica persona brava, buona, sincera… è la classica persona onesta. Normale. Perfettamente integrata nel mondo sociale contemporaneo. Elisabetta, quando inizierà a lavorare, sarà l’uomo arancia.
È esattamente il tipo di persona che potrebbe avere dei seri problemi di stabilità mentale, nel corso della sua vita.
Lei vuole lavorare. Non le importa il motivo. Vuole semplicemente lavorare perché è così che si fa. È così che si vive, e lei desidera quello.

ART. 1
L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro

Che uno debba lavorare, è fin troppo chiaro. Ma il perché, beh, questo non te lo può certo dire la Costituzione… questo lo devi sapere tu. Ognuno lavora quanto gli pare. Oh, è un brutto periodo per fare questa affermazione, dimenticavo… la crisi, certo… sono tutti contro i giovani, è vero… allora diciamo che è così che dovrebbe essere, va bene? Ognuno dovrebbe fare gli accidenti che vuole. Va meglio, così?
Nessuno regala niente a nessuno. Questo è il senso dell’Art. 1. Bella merda. Però almeno non dice che devi lavorare a caso. Voglio dire, se non hai esigenze, chi te lo fa fare, di usare un sacco di tempo lavorando per chissà che cosa? Se decidi di aiutare qualcuno, sei un volontario, e a me sta bene. Altrimenti, caro mio, devi essere uno schiavo nel profondo, per fare una cosa del genere. No?
Ti stai preoccupando… no, stai sereno… sei in ottima compagnia. La gente che lavora per niente è un’infinità. Lo fanno in continuazione. Pensa a quante persone, dopo essere andate in pensione, continuano a lavorare. Non ne hanno bisogno, loro, di soldi… glieli dà lo Stato senza che loro alzino un dito… durante la loro vita, durante i loro quarant’anni di lavoro, loro se li sono già procurati, i soldi per la vita. Hanno lavorato più del necessario proprio per avere i soldi anche per la vecchiaia… hanno investito una vita intera per potersi riposare da vecchi, e invece cosa gli succede? Succede che questi qui, dopo aver perso il lume della ragione, continuano a lavorare. È assurdo, lo so. Sono diventati dipendenti dal lavoro. Il mondo, la società li ha disumanizzati, gli ha strappato l’anima e l’ha buttata nel cesso. Insieme alla loro libertà. E da schiavi liberti che sarebbero stati, hanno deciso di rimettersi il guinzaglio al collo.
Non gli importa chi lo mantenga, quel guinzaglio. Non gli importa dove li conduca. Il guinzaglio per loro è sicurezza. Il guinzaglio è la loro unica possibilità di sapere cosa fare. La loro unica occasione per non perdersi nel mondo, per non sentirsi smarriti in quell’oceano infinito che è la loro libertà. Così vasta, così profonda, così sconosciuta da essere addirittura temuta. Ed evitata.
Ah, stai attento, tu che mi leggi! Io non parlo mica di chi pratica il suo lavoro per passione! Artisti, sportivi, viaggiatori, documentaristi… questa è gente che il suo lavoro lo farebbe anche gratis! Gente che vede nel suo lavoro la sua vita stessa! Gente che deve lavorare, schiavizzarsi per sopravvivere, magari, perché il loro hobby non gli frutta un soldo… ma loro lo praticano lo stesso! Quelli sono passatempi che possono fruttare soldi, naturalmente… ma che vengono praticati a prescindere dal guadagno! Mica parlo di quella gente lì, io, eh!
Io parlo delle persone la cui libertà è proprio il lavoro inteso come obbligo da svolgere. Sì, proprio come il titolo di questo post. Arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Chi lo diceva? I nazisti? Ah sì…?
L’individuo è morto. E ha sempre più spesso bisogno di una guida.
Ecco perché sono pazzi. Lavorano senza sapere il perché.
Quale persona veramente sana compirebbe coscientemente degli sforzi vani? Senza conoscerne la ragione, dico… quanta gente sana lo farebbe? Fatica, sudore, pressioni, stress, stanchezza, affanno… in una parola, lavoro. Se lavoro per una ragione, ci può stare, ma se quella ragione non la conosco, allora no. Allora no…
Va bene, ti faccio un esempio pratico. Vai in palestra? Sì? Ci andresti lo stesso se non otterresti alcun risultato a livello fisico? Faticheresti in quel modo, se non ti permettesse di scaricare lo stress? Non mi farei neppure una sega, se non fosse piacevole!
Ogni nostra azione deve essere motivata e spesso, un motivo per cui la gente, la stragrande maggioranza degli esseri umani lavora otto ore al giorno, ogni giorno, per quarant’anni… beh, spesso questo motivo non c’è. Mi correggo. Questo motivo non c’è quasi mai! Si potrebbe lavorare molto meno e mantenere la stessa qualità di vita. E non voglio esagerare col dire che si vivrebbe meglio… di più…
Quello che ci tengo a dirti, è che ritengo fondamentale sapere il motivo per cui mi spacco la schiena ogni santo giorno. È troppo importante avere una spiegazione sulla sveglia che mi butta giù dal letto ogni mattina, sul capo che s’incazza quando faccio un errore, sul collega che mi toglie il saluto, sullo stress che non me lo fa drizzare, sulle scenate isteriche di mia moglie, sull’impotenza, sui brufoli al culo, sulle emorroidi, sulle code al supermercato, sulle tasse, sul bollo auto e sul canone RAI, su Canale 5 e sui brutti voti di mio figlio a scuola, sulla cellulite al culo della cassiera sexy e sull’aumento della benzina, sulle guerre in Medio Oriente e sui troppi stranieri nel campionato italiano, sulla malapolitica e sull’umidità al soffitto, sul mio vicino di casa rumoroso e sulle pulci fra i peli del mio cane e sulle puttane di Berlusconi e sulle gnocche che vanno solo coi ricchi e sulle basi NATO e sui satelliti spazzatura e sulle barche di lusso…
La gente non si dà una ragione per tutto questo… la gente se ne sbatte le palle, e non conosce il motivo per cui ingurgita tutta quella merda.
La mangiate forse perché sa di nutella? Perché profuma? Perché avete paura di annoiarvi? Va bene… va bene tutto… ma io ho assoluto bisogno di una spiegazione per cui me la prendo in faccia ogni giorno, quella roba.
E non dico di essere un filosofo… non dico mica di voler trovare il primo motore dell’universo… macché! Ma chi se ne frega, dell’universo! È a me stesso, che devo dare una spiegazione! Giusta o sbagliata che sia, ho bisogno di una ragione… una scusa, se preferisci… devo giustificarmi con me stesso! Una scusa, cazzo, dovrò pure inventarmela, per potermi fregare in questo modo! Altrimenti, quella parte del cervello che mi è rimasta sana, mi manda a fare in culo pure lei… ed è così che la gente impazzisce per davvero! No?
La coscienza di quello che fanno le persone è troppo spesso ignota… troppo lontana dalle loro vite… sono troppo distanti dalle azioni che compiono quotidianamente, questi qua… non sanno neanche bene che cosa stanno facendo, perché, per come, per chi… per chi?
Sanno che si fa così, che bisogna fare così, e allora lo fanno. Gli hanno detto, gli hanno insegnato, hanno sempre visto la gente, i loro vicini, i loro genitori, i loro nonni, i loro zii, le famiglie dei loro amici, gli attori del cinema… tutti, tutti, cazzo, tutti fanno così! Perché loro dovrebbero fare diversamente? Perché dovrebbero essere diversi dagli altri? Quali forze, quale coraggio, quale mente, quali idee userebbero, se non facessero ciò che hanno sempre saputo di dover fare?
Sembra quasi un insieme di ansie, paure e angoscie programmate, stese, studiate a tavolino affinché tutti, o quasi, ne siano vittima. No, non sono un complottista, anche se a volte ci sono tentato.
È la crisi dell’individuo, che mi fa incazzare. È il rapimento della personalità, è un processo sociale, economico e politico volto alla canalizzazione, agglomerazione e accorpamento che permette di controllare le diversità in un momento solo… sono talmente poche, le differenze che ci separano…
Quest’omologazione permette di fare i conti con un numero di individualità così scarso che ci sarebbe di che preoccuparsi… culture, tradizioni, lingue, banche, monete, politiche, usi e costumi, feste e religioni, vestiti e cibi e bevande e divertimenti… tutto sta procedendo verso un’unità sempre più forte, sempre meno intaccabile, e loro, ingenui, continuano a dare la loro vita in cambio di un fare in potenza. In cambio di una possibilità futura. In cambio della malsana idea di fare questo, quello e quell’altro “una volta che finisco di lavorare”.
Non sanno che quando decideranno cosa fare dei frutti del loro lavoro potrebbe già essere troppo tardi. L’illusione della vita eterna è ancora troppo diffusa fra le menti delle persone di oggi. La vecchiaia non viene neanche lontanamente considerata come si dovrebbe.

Uomini arancia. Pieni di succo. Gustosi. Vitali. Belli. Presi e usati senza sapere da chi, per chi, per quale ragione.
L’educazione pubblica, dice Céline. L’abitudine a lavorare per un tempo prestabilito chissà da chi, incondizionatamente accettata da chiunque voglia appartenere a questa società.

Abbiate almeno la dignità di farvi bastonare, allora.

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