Gente,
afa, aria pregna.
Innumerevoli
nuche e capigliature addossate le une alle altre.
Volti
pallidi, tesi, spenti verso il buio vuoto.
Nessuna
voce.
Un
frastuono riempie la poca aria libera,
trema
e riecheggia nel vento artificiale.
Aria
fetida, odore aspro, amaro e caldo.
Arriva
il treno.
Le
teste si muovono accalcandosi furiosamente,
ressa,
perfetti
imbuti dal collo intasato.
Unico
ingresso alla stanza di latta.
Fischio,
botto, scatto improvviso
Equilibrio
precario
Il
freddo della maniglia d’acciaio, contatti non umani
Giacche,
zaini, valigie, borse, ventiquattrore
Immersa
nell’urlo progressivo una ragazza galleggia con un libro fra le
mani
Auricolari
nelle orecchie accompagnano sguardi perduti
Tablet
e smartphone accendono diversivi superflui
I
nasi si sporcano, si inaridiscono
Macerie
di polvere nera s’incuneano nelle gole,
si
depositano sulle lingue.
Si
intaccano i palati, si ostruiscono i pori epidermici.
Una
voce elettronica pronuncia il nome di un luogo noto.
Un
altro fischio, un altro sussulto
La
mano stringe con forza il lucido appoggio ormai caldo
Il
treno si ferma
L’umanità
si fa liquida
Si
autotravasa da un tubo metallico a uno in cemento
Ciascuno
spinge ed è spinto
Fluido
condensato collettivo incontrollato
Incontrollabile
agitazione frenetica
Si
respira di nuovo, si respira sporcizia
in
attesa di un’aria che insozza e marcisce gli ultimi umani tessuti
rimasti
al
di là della bocca di luce falsamente trasparente.
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