L'Uomo Arancia

Letteratura d'assalto. In crisi. Dal 1989

ERA DESTINO

 

Si è sempre soliti pensare, in certe occasioni, che il destino esista per davvero. Non ci si preoccupa di quanto siano stronzi i propri pensieri, in quelle occasioni… semplicemente si dice e si pensa quello che la gente dice… quello che la gente pensa…

È una vera fortuna che abbia imparato a fottermene di tutte certe stronzate. Tuttavia anche io mi ritrovo spesso di fronte a queste cose, visto che la gente che mi circonda, e che ogni tanto incontro, è sempre portata a pensarle per davvero, queste cagate.

Ero ad un festival letterario a Cagliari. La stagione estiva era praticamente terminata, avevo lavorato in albergo assiduamente da metà maggio, eravamo agli inizi di settembre, e ormai mi spettavano solo alcune nottate da fare… era giusto per la sostituzione del Suecho, mio amico fraterno e, per quell’anno, pure collega.

Ero andato a quel festival letterario anche l’anno precedente insieme ad un altro mio amico, un mio ex compagno di classe, Valerio. Valerio era alto uno e ottantacinque, pesava sessanta chili, aveva la carnagione giallastra e le guance disordinatamente ricoperte da alcuni grossi peli di barba. Portava gli occhiali, aveva gli occhi fuori dalle orbite e le spalle strette e gracili, la testa troppo grande e i piedi e le mani enormi. Aveva due punti, però, su cui poteva contare. L’intelligenza e il senso dell’umorismo. Per cui gli avevo chiesto se anche quell’anno saremmo andati al festival insieme. Con lui mi divertivo.

Certamente! – fece lui.

Se conosci qualche ragazza – gli dissi – dille di venire a farci compagnia. È un periodo che sono a secco.

Erano due settimane che non scopavo, ma non era stata una grande scopata, l’ultima, e il Suecho mi diceva sempre che avevo bisogno di una ragazza fissa. Non sapevo perché ma lo accettavo.

Valerio mi disse che avrebbe sentito qualche sua ex collega di Università con cui ancora era in contatto, e così partii alla volta di Cagliari con la mia utilitaria nera vecchia di sei anni. Andai a prendere Valerio a casa sua e parcheggiammo su, in Viale Boncammino, nella parte alta della città. Non sapevamo esattamente dove si sarebbe tenuto il festival, e da lì avremmo potuto decidere la direzione da prendere.

Scendemmo giù attraverso il ghetto degli ebrei, percorremmo Via Università e dal Bastione ci accorgemmo che la location non era più tanto distante da dove ci trovavamo. Scendemmo le scale del Bastione e ci ritrovammo lì, poco prima del Terrapieno.

C’erano dei reading di romanzi scritti da due autori bolognesi, in quel momento. Io e Valerio ci sedemmo all’ascolto, c’era tanta gente, di varia età, donne e uomini, niente bambini, ma io iniziai subito a rompermi i coglioni.

Non ti sembra tutto abbastanza piatto e banale? – chiesi a Valerio.

Sto aspettando che venga fuori una ragione per cui tutta questa gente dovrebbe ascoltarli – rispose lui.

La ragione di tutto quello che succede è sempre una fra le due: i soldi e la fica. Penso che in questo caso siano i soldi – e indicai a Valerio le varie bancarelle che popolavano i lati della strada, in cui si vendevano i libri dei due bolognesi.

Si parlava di mafia, corruzione, camorra, ‘ndrangheta, e tutte le balordaggini che rendono l’Italia famosa nel mondo. Colore locale. Erano libri fatti per vendere, e Valerio mi fece notare che quello sarebbe stato proprio il tema del festival di quell’anno. Una gran rottura di coglioni, niente che m’interessasse, lo stile era stato accantonato… volevano far soldi, e tutta quella gente che boccheggiava, in attesa di bellezza, e che restava a secco.

Per fortuna si fece sera, la gente iniziò ad arrivare in numero consistente, incontrai diverse persone che avevo conosciuto nei tempi andati, quando a Cagliari ci ero fidanzato e ci uscivo regolarmente… artisti di strada, attori teatrali, musicisti… salutai tutti e gli presentai il mio amico Valerio. Andammo a mangiarci un boccone insieme, e lui mi disse un po’ di come se la cavava… mi parlò di una ragazza che gli piaceva, ma che non sapeva come approcciare, e infine disse che forse nessuna delle persone che aveva contattato si sarebbe fatta viva.

Io mi ero pure dimenticato di avergli detto di avvertire qualche ragazza, ma lui era proprio sconsolato… sembrava deluso dei suoi amici… come se volesse cercare di fare una bella figura. A me non me ne sbatteva proprio un accidente, in realtà, e glielo dissi col sorriso, sorriso che lui percepì giustamente sincero. Poi tornammo su, verso il Terrapieno, per assistere all’evento della serata. Un concerto blues tenuto da un bluesman sardo residente a New Orleans. Si faceva interessante, o per lo meno curioso.

Trovammo posto a sedere accanto a delle sculture del Sciola e iniziammo a sentire le fesserie che il bluesman iniziò a dire. Campi di cotone, Ku Klux Klan, Mississippi, verande… parlava, parlava e non iniziava mai a suonare, raccontava scene mistiche, schiavi, povertà, frustate… neri che si sedevano, armoniche che echeggiavano nella sperduta aria della notte attorno alle rive dei fiumi dell’America…

È proprio un cazzone – dissi.

Non essere troppo severo – fece Valerio – i bluesmen sono così… sono un po’ eccentrici…

I bluesmen erano dei negri che si cagavano addosso per la paura di essere presi come schiavi, altro che eccentrici… questo ci piscia, sopra le loro paure!

Mi diede ragione. Finalmente iniziò a suonare. La musica non era male, anche se non mi sembrava che con l’armonica fosse proprio straordinario, tuttavia si vedeva che il tipo sapeva il fatto suo.

Verso la fine del concerto vidi che due ragazze si avvicinarono a Valerio. Erano le amiche che aveva invitato ad unirsi, e lui me le presentò subito, tutto fiero. Una era una mora coi capelli lisci, scura di carnagione e dagli occhi piccoli, ma dalle tette interessanti. Abbondanti, un po’ scese, ma assolutamente piacevoli al tatto. Almeno così me le immaginai. Aveva i fianchi larghi e le cosce grasse, e per di più aveva un atteggiamento piuttosto freddo e presuntuoso. Me ne accorsi, le strinsi la mano e passai a studiarmi l’altra. La seconda aveva la carnagione molto chiara, pallida direi quasi, come piaceva a me. Le tette si vedevano appena, ma aveva i capelli castano chiaro, lunghi e mossi, uno sguardo vispo e un sorriso simpatico. Iniziai a parlarci, e Valerio le disse che anche io mi divertivo a suonare l’armonica. Le piaceva suonare l’armonica, a lei.

Ora, tutto può essere, certo, ma trovare una ragazza che suona l’armonica, non è mica facile, pensai. Lei la suonava. Mi chiese se conoscevo qualche tecnica, sfoggiò alcuni nomi tipo bending e tongue blocking, mi chiese chi ascoltavo eccetera. Non era male, e me la tenni vicina. La scopata ci poteva scappare, l’avevo abbordata e si vedeva che le piacevo.

Finito il concerto del bluesman eccentrico ci avviammo verso il Terrapieno, dall’altra parte della strada. Le bancarelle si erano strapopolate, e stava per partire un qualcosa che avrebbe dovuto somigliare a un reading musicale. I posti a sedere erano finiti e io, Valerio, la graziosa armonicista e la tettona schifiltosa restammo in piedi ad aspettare che iniziasse, quando vidi Valerio impegnato nel salutare altre due ragazze. Una gli arrivava quasi all’ombelico, era larga il doppio di lui, aveva i capelli neri, a caschetto, gli occhietti piccoli e neri con la palpebra calante sull’esterno e le guance che sembravano quelle di un castoro con due noci in bocca. L’altra invece era alta quasi quanto Valerio. Bionda, capelli lunghi e mossi, occhi azzurri e piercing sul sopracciglio sinistro, occhiali. E culo pressoché perfetto. Fra tutte quante, forse era proprio la più piatta, ma fisicamente surclassava molte delle ragazze presenti quella sera.

Si chiamava Luciana.

Appena Valerio ci ebbe presentati, iniziammo subito a notare una certa intesa, fra noi. Recepiva le mie battute in tempo zero, e quelle che rivolgevo a lei erano subito seguite da delle risposte simpatiche e azzeccate che mi fecero capire che me la sarei scopata. In un modo o nell’altro, me la sarei scopata. Eravamo tutti in piedi, poi io e lei ci sedemmo per terra, sul bordo di un’aiuola in cui era stato piantato un albero che stava sfasciando tutto il marciapiede lì intorno. Io fumavo e lei fumava, io bevevo birra e lei beveva vino. La gente ci camminava accanto in cerca di un posto su cui sedersi, chiacchieravano e ridevano e bevevano e fumavano. A un certo punto Luciana si girò di scatto, seria, e mi fece:

Ma tu sei Paolo, di C*?

Sì, feci io.

E insegni inglese.

Inglese e francese – risposi.

Io ho il tuo numero.

Stetti zitto, immobile. Serio.

E chi te l’ha dato? – chiesi.

Sono quella che ti ha contattato qualche giorno fa per chiederti informazioni sui corsi.

Mi chiama diversa gente…

Ti ho mandato un messaggio… ricordi?

Luciana?

Sì.

Sei tu quella Luciana?

Sì!

L’amica di Melania?

Esatto! È lei che mi ha dato il tuo numero, te l’ho detto, no?

Già, l’ho sentita il giorno dopo per ringraziarla della pubblicità!

In realtà io di tanto in tanto volevo indagare se Melania fosse ancora fidanzata oppure no. Era una ragazza meravigliosa, dalla carnagione chiarissima e dagli occhi lucenti, castani. Capelli biondi e corti, tagliati con un certo stile, ma soprattutto due tette in cui ci sarei voluto affondare con tutta la faccia. Ma anche quando le scrissi quella volta, con la scusa di ringraziarla per la pubblicità, era fidanzata. Naturalmente non dissi un cazzo di niente a Luciana, mi misi a ridere e la terminai così.

Incredibile, eh? – fece lei.

Già – risposi.

Per fortuna non nominò il destino.

Finita la sarabanda, tutta la gente si disperse per le vie di Cagliari, e io, Valerio e Luciana decidemmo di andare a sederci sul Bastione, non so perché. L’armonicista se n’era andata e con lei l’amica bassa e grassa di Luciana. Restammo noi tre. Chiacchierammo del più e del meno, non ricordo cosa ci dicemmo, ma non era niente di interessante. Ricordo che ci facemmo tutti e tre delle grasse risate parlando di qualcosa che trovavamo divertente e poi decidemmo di andarcene dai piedi. Io sarei dovuto rientrare a C* e avevo parecchio sonno.

Giunti al ghetto degli ebrei Luciana ci disse che lei avrebbe girato in quel punto, ché viveva giù, di fronte a Piazza Yenne, mentre noi…

Dove avete la macchina?

A Boncammino – disse Valerio.

Ah, passerete dalle scalette, allora? – fece Luciana.

No – dissi io – quali scalette? Basta continuare dritto e arriviamo direttamente lì.

Beh – fece Valerio – in realtà secondo me dovremmo scendere giù dalla clinica e farci la salita dell’ospedale.

Sì, oppure passate dalle scalette – insistette Luciana.

Ma che cazzo clinica, ospedale, scalette… andiamo dritti. Cinque minuti e siamo in macchina – dissi a Valerio.

Bah – disse Luciana – secondo me vi conviene passare dalle scalette.

Beh – continuò Valerio – scalette non ne conosco, ma io passerei dalla clinica e dall’ospedale.

Ok – chiusi io – ma se continuiamo a parlare stando fermi, di sicuro alla macchina non ci arriviamo. Quindi basta, ho deciso. Si va dove dico io. Amico mio – dissi poi a Valerio poggiandogli una mano sulla spalla scheletrica – fidati di me.

Giunti alla macchina dopo cinque minuti come previsto, visto che ero l’unico evidentemente ad avere bene presente da dove sarei dovuto passare, chiesi a Valerio se era Luciana la ragazza che gli piaceva, e lui disse di no. Presi il telefono, cercai il messaggio che mi aveva mandato e le scrissi al volo.

Noi siamo in macchina, e di scalette non ne abbiamo viste. Poi un giorno, magari, mi ci porti tu, a vedere queste scalette.

***

Guidavo tutto bello contento. Era stata una buona serata. La compagnia femminile, dopotutto, fa sempre bene. E poi era un periodo in cui non capivo cosa mi stesse succedendo, ma volevo sempre scopare. E più scopavo, più sentivo che avrei voluto scopare. Luciana non era male… sembrava abbastanza libertina, aveva dei modi di fare che mi mettevano a mio agio, e adesso aveva anche il mio numero. Se avesse risposto me la sarei fatta di certo, e sentivo che avrebbe risposto. Una percezione, niente di che, ma si sa. In queste situazioni ci si scambiano delle sensazioni primordiali. Il corpo, nella fase dell’accoppiamento, è capace di emanare delle vibrazioni che noi mica sappiamo controllare… non le conosciamo mica, noi, certe cose… il linguaggio dei corpi… odori… mi sono sempre fidato di certe percezioni, e non credo di essermi mai sbagliato. Anche se molte volte sono andato in bianco.

Ad un certo punto, mentre sorpassavo una macchina, saranno state le due, due e mezzo del mattino, questo cazzone inizia a spostarsi verso sinistra. Dico, lo stronzo che stavo sorpassando. Era un ampio incrocio su una strada a quattro corsie, ormai ero fuori Cagliari e il traffico non era più molto fitto, ma questo bastardo sbandava da matti! Io me ne accorgo e mi allargo un po’, non voglio mica prendermi una sportellata da lui! Mi attacco al clacson, ma di fronte a me vedo che il guard rail sta per ricominciare… mancavano cinquanta metri, io sarò stato a cento, centoventi chilometri all’ora… ho avuto una paura, un terrore… mi sono letteralmente paralizzato! Ho bestemmiato, ho insultato lo stronzo che stavo sorpassando, e lui per fortuna si è rimesso in carreggiata, ma io… l’inizio del guard rail ormai era lì, di fronte a me. Mi paralizzo e chiudo gli occhi.

Non so come, ma non lo prendo. Sfioro la lamiera grigia, la sfioro proprio… due centimetri dal mio specchietto, forse uno… forse mezzo, e sento un forte colpo alla ruota sinistra, quella davanti…

Cazzo cazzo cazzo cazzo! – urlo, continuando a bestemmiare come un turco e ad insultare lo stronzo che avevo appena sorpassato.

Un rumore sordo e forte inizia a farsi sentire dentro la macchina, ma lei continua ad andare tranquilla, dritta… non ci sono sbandamenti, niente di che. Rallento, ma solo per sicurezza… aspetto di capire che diavolo possa essere successo, e inizio a pensare che si tratti solo di terriccio, o di asfalto fresco sulla gomma. Lo stronzo mi risorpassa, accendo gli abbaglianti e suono il clacson in modo che possa sentirsi insultato. Nel frattempo continuo a camminare, e il rumore sordo sparisce completamente. Mi tranquillizzo, riaccelero e, ad un certo punto, sento una vera e propria esplosione.

Era scoppiata la gomma, la macchina inizia a sbandare, io tengo il volante e lei scorre dritta, sull’asfalto. Lo stronzo del sorpasso aveva sfrecciato alla mia destra, senza minimamente preoccuparsi del fatto che fosse sua, la colpa di tutto ciò. Vedo un viottolo sulla destra e mi ci infilo.

Scendo dalla macchina. La gomma anteriore sinistra era a terra, ma il resto della macchina sembrava a posto. Avevo temuto per un secondo di aver prelevato qualcosa anche all’altezza della carrozzeria… di aver compromesso seriamente la mia macchina, ma per fortuna non era successo niente di tutto questo. Ero ok. Avrei cambiato la gomma e sarei ripartito per casa mia.

Avevo nel cofano una ruota di scorta originale, non un ruotino. Certo, sarebbe stata forse un po’ più sgonfia del normale, ma fanculo, pensai… la monto e torno a casa.

Il mio cofano è sempre molto carico. In questo periodo ci dovrebbe essere un computer fisso intero. Con tutti i componenti, dico. C’è tanto di schermo, mouse, tastiera e hard disk, tutto l’ambaradàn, insomma. In quel periodo non ricordo cosa ci fosse, ma dovetti trasferire tutto il contenuto sul sedile posteriore della macchina, per poter arrivare a prendere la ruota di scorta. Prendo le chiavi, monto il cric, faccio tutto quello che devo fare, ma mi accorgo che i bulloni per togliere la ruota sono fottutamente duri. Ma dico, erano così duri che se mi mettevo a saltare sopra la chiave si smuovevano per uno, due millimetri dopo i primi salti, e poi s’inchiodavano perennemente.

Sembravano cementificati. Non c’era verso di smuoverli.

Saltai, sforzai, mi dimenai con tutte le mie forze, ancora ubriaco dopo al serata di Cagliari, bestemmiando a urla di fronte ad un cancello di un’apicoltura, coi fari accesi per vederci qualcosa e con una camicia ormai totalmente sporca, dopo aver armeggiato tanto con ruote, chiavi, cric e quant’altro.

Mi arresi. Anche i cani dentro al recinto smisero di abbaiare. Io non sapevo come fare. Ero sfinito, andato, non riuscivo a riprendere fiato. Tutte le mie forze si erano consumate nei vani tentativi di smuovere quei quattro fottuti bulloni che non avevano la minima intenzione di mollare. Ma neanche io.

Riscesi dall’auto, raccolsi tutte le mie forze, sforzai, tirai, gemetti… denti stretti, muscoli contratti, braccia tese… niente. I cani avevano abbaiato per un po’, poi se n’erano andati. Avevano capito tutto, loro.

Ero uno smidollato. Umiliato, rientrai in macchina, girai la chiave, accesi il riscaldamento e mi riposai. Dopo essermi tranquillizzato, pensai bene a cosa avrei potuto fare. Chiamare Valerio sarebbe stato inutile. Non aveva macchina, e contare sulle sue forze sarebbe stato come chiedere a un pescatore libico di procurarmi pantaloni da neve. Il Suecho era al lavoro, in quel momento, perciò anche lui era fuori gioco. Gli altri miei amici si erano trasferiti, uno era impazzito, e l’unico che mi venne in mente di chiamare fu Nino Peletti, un amico di vecchia data che avevo conosciuto nel periodo milanese. Lui era di Milano, ma i genitori avevano casa in Sardegna, e lui scendeva ogni anno. In quel periodo era nella mia zona. Lo chiamai.

Ah, eccolo qua, il Carlini! – urlò – Alura, com’è che stai, neh? Come la va, Carlini!

Si sentiva fracasso, mentre parlava, ed era costretto a urlare ancora di più di quanto non facesse normalmente. Lo detestavo, come persona. Era proprio un grandissimo coglione, ma mi voleva bene, e in fondo in fondo, forse, anche io un pochino gliene volevo.

Nino senti, ho poco tempo da perdere. Riesci a venire a Cagliari tipo… adesso?

A Cagliari? Ma dai, Carlini… ancora a Cagliari, esci, d’estate? Ma figa! Con tutti i posti che ci sono… ma tu vai a Cagliari, ma a fare che? Ma non lo sai che la movida si sposta, d’estate? Eh? Carlini! Va che mi deludi, eh!

Cristo Nino, riesci a venire a Cagliari sì oppure no?

Se hai una bella figa lì che ti rifiuta perché non hai classe e vorrebbe un uomo vero, mi ci fiondo al volo!

Ok, allora vieni, sbrigati. Non sono proprio a Cagliari, sono in strada. Al semaforo fai inversione, mi trovi a bordo strada.

A bordo strada? E che cazzo ci fai a bordo strada, Carlini! Starai mica vendendo fazzoletti!

Dai Nino, muoviti!

Riagganciai. Con Nino Peletti non ci si poteva comportare in maniera normale. Bisognava sempre avere un atteggiamento alterato, l’avevo capito dopo un anno, un anno e mezzo che lo frequentavo. Se mi comportavo decentemente me la metteva nel culo. Sempre.

Dopo un tre quarti d’ora buoni vedo una macchina che faceva inversione al semaforo che precedeva l’ingresso di Cagliari. Il traffico ormai era finito, andato, scomparso. C’era solo la sua BMW in giro. E se aveva fatto inversione, doveva per forza essere il Peletti. Mi faccio vedere a bordo strada, mi fa gli abbaglianti come cenno d’intesa, e lo faccio sviare nel vicoletto dove si trovava la mia macchina.

Uè Carlini! – fece lui, tutto gioioso e puzzolente di tequila – Che hai combinato? Dov’è la figa? Ma è bionda o mora? Ero con due bionde, ora… non sai che fighe… una ci aveva queste tette che mi ci stavo per tuffare in mezzo!

Senti Nino, devi farmi vedere il tuo cofano.

Il mio cofano? Dov’è la figa?

Non risposi. Aprii il cofano della BMW, sperando di trovare una soluzione che nella mia macchina non c’era.

Che cazzo fai Carlini! Dai, smettila di giocare, su…

Il cofano della macchina del Peletti era così pulito che forse la mia macchina è stata in quelle condizioni solo fino a tre giorni dopo che la comprai. Non un granello di sabbia, non una striscia di polvere, non una maglietta appallottolata, un cappello schiacciato, una sciarpa stropicciata… niente!

Cristo – gli dissi – ma la usi tu questa cazzo di macchina?

See, ma mica come fai tu, che vuoi farne un fuoristrada… io ho classe, è per quello che scopo, Carlini… son mica come te, io, eh! Ci bado a certe cose, sai… ma tu cos’è che hai combinato? Ma te – fece, avvicinandosi alla mia macchina e guardando la gomma a terra – hai bucato! Ma come si fa a bucare in questa strada qua? Uè ma te sei un pericolo, allora, eh! Ma dico io, ma devo dirti proprio tutto, allora?

Ignoravo ogni sua parola e, frugando nel suo cofano, scoprii che la macchina del Peletti forniva una chiave a croce, anziché la classica chiave di ghisa, per cambiare la ruota. La differenza di prezzo a volte poteva significare qualcosa.

Non mi dire – fece lui – che non sai cambiare una ruota!

Vuoi provarci tu? – gli feci.

Nino Peletti era un ometto basso, tarchiatello, e sapevo che di forze ne avevo molte più io di lui. Decisi di metterlo alla prova, sicuro di sentire qualche scusa assurda, una delle sue.

Prese la mia chiave, la mise sul bullone, iniziò a tirare. Forse dopo due secondi mollò. Forse anche meno. Si girò, testa bassa e battendo le mani, con le labbra strette come chi deve per forza essere paziente.

Eh, amico mio… credo che se tu continui a spendere poco per le macchine, ti ritrovi per forza nei guai…

Cioè? – feci, trattenendomi dal ridere.

Eh, lo vedi? I bulloni qua… van mica bene… lo vedi come sono? Son mica a posto, ‘sti bulloni qua, eh! Mica è roba di chiave… è roba di macchina! Te compri la Fiat… compri la Fiat… son le tedesche che bisogna comprare! Altro che Fiat, Fiat…

Presi la chiave a croce della BMW, la montai sui bulloni. TAC! TAC! TAC! TAC! Quattro bulloni, trenta secondi. Avevano mollato tutti quanti. Tolsi la ruota, montai la nuova, sbarazzai tutto e restituii la chiave a croce al Peletti.

Grazie per essere venuto, Nino – gli dissi, battendogli una mano sulla spalla e salendo in macchina.

Non mi toccare con quella mano! Mi sporchi la camicia! E poi, dove credi di andare? – fece lui.

A casa.

Eh no, almeno qualcosa da bere me la offri adesso!

Aveva ragione. Andammo a Cagliari, trovammo un locale aperto ed entrammo dentro. Avrei dovuto pagare per aver chiesto un favore a Nino Peletti. Come da preventivo.

***

In quel periodo lavoravo in albergo e Luciana veniva a trovarmi nel paese in cui vivevo. Era successa una cosa per cui avrei dovuto riprendere a lavorare regolarmente, e io ne ero ben felice, visto che ero sotto di quindici mila euro. Sono una persona che odia i debiti, e che pur di pagarli il prima possibile è disposta a fare a se stessa quello che neppure gli strozzini avrebbero il coraggio di fare. Mi conveniva andare da uno strozzino. L’avrei stupito con la mia cattiveria.

Andavo a prendere Luciana a Cagliari e me la portavo a casa. Ci facevamo delle scopate immense. Il suo corpo era bianco e candido, anche se forse era troppo alta e troppo magra, per me. Ero abituato a quelle un po’ più piccolette… magari tarchiatelle, con ciccia da mordere e tette da palpare, strizzare e strapazzare. Lei era alta e magra, aveva un fisico che poteva essere invidiato da gran parte delle donne che piacevano a me. Mi piaceva perché era bella, ma preferivo quelle più basse e morbide. Scopando, però, devo dire che era una vera tigre. Insuperabile, penso. Una ninfomane, probabilmente. Voleva scopare sempre, in qualsiasi momento, e non diceva mai di no a nulla. Se fossi stato capace di provare anche qualche sentimento nei suoi confronti sarebbe stato il massimo.

Faceva tutto quello che le chiedevo, potevo soddisfare tutte le mie fantasie sessuali in una sola giornata, solo che lavorare la notte mi stancava, perciò non riuscivo a scoparmela per più di tre, o quattro volte al massimo in un giorno. Se poi decideva di trattenersi, il giorno seguente la media calava drasticamente, ma lei era sempre assetata di sesso, così le mettevo spesso l’uccello in bocca e io cercavo di riposare, anche se era impossibile addormentarmi perché era brava anche a succhiarlo. Riusciva a farmelo venire duro anche quando non avevo le forze per muovermi, mi saliva sopra e faceva tutto lei. Venivo, mi addormentavo e dopo dieci minuti ricominciava. Spesso si trattava di scopate lunghe, venti minuti, mezz’ora. Non riuscivo a venire, delle volte, ero a corto di sperma… ho bisogno del mio tempo, certe volte. Ero del parere che lei non avesse un orgasmo vero e proprio. Non riusciva a raggiungerlo, era sempre sul filo, e così godeva come una matta ma non si soddisfaceva del tutto. Secondo me era per quello che voleva scopare così tanto.

Un bel giorno in albergo mi dissero che mi sarei dovuto spostare direttamente in una stanza dell’hotel.

Cazzo – ho detto – deve venire una mia amica a trovarmi, oggi. Ci eravamo già messi d’accordo.

Beh – mi disse il mio capo – falla venire qua, che cazzo te ne frega? Clienti ce n’è pochissimi, il direttore non se ne accorgerà di certo.

E così feci.

Luciana rimase in macchina finché la situazione non si era tranquillizzata, poi la chiamai e le dissi di venire nella hall. Le avrei fatto vedere l’hotel. Io ero abituato a coricarmi verso l’una, l’una e mezza, ma Luciana non lo sapeva e sembrava essere veramente innamorata di me. Non si staccava. Parlava e parlava, rideva, scherzava, giocava, saltava, toccava, accarezzava, baciava. Faceva tutto fuorché lasciarmi in pace. Rimase fino alle quattro del mattino lì, seduta senza dire niente, mentre io barcollavo e la mia testa ciondolava per il sonno.

Se non mi vuoi vado in camera – mi disse.

Non è che non ti voglio – risposi – ma mi sta venendo sonno. Sono molto stanco.

Andammo in bagno e mi fece una pompa, mi pulì e poi le dissi che avevo ancora più sonno di prima e finalmente se ne andò in camera. Mi addormentai. Poi mi svegliai, feci il consueto giro di ronda e sbrigai il lavoro restante. Feci colazione e filai dritto in camera, dove lei mi aspettava completamente nuda, pronta a farsi scopare.

Ce la feci nonostante la stanchezza, ma poi crollai in preda del sonno. Il letto era morbido, il cuscino comodissimo, e la stanza era così accogliente, così profumata, che era da un bel po’ che non mi facevo una dormita simile. Ero un po’ in tensione perché non sapevo bene come spedirla fuori senza che nessuno la vedesse. Inoltre, con quei capelli biondi e con quel corpo, non poteva neppure passare tanto inosservata, specie per camerieri e manutentori, che erano soliti ficcare il naso sull’identità dei vari clienti dell’albergo, particolarmente le belle donne. Quei figli di puttana sarebbero stati capacissimi di mettermi seriamente nella merda col direttore, se avessero saputo che io me la stavo spassando in camera, e questo era quello che io e le mie colleghe del ricevimento avremmo voluto evitare.

Dopo circa tre ore che dormivo sentii un rumore alla porta. Aprii gli occhi. Il rumore alla porta sembrava insistente, guardai Luciana ed era sveglia. Non so bene cosa sia stato a provocarmi quella reazione così fulminea e azzeccata. Forse l’istinto di sopravvivenza. Presi la coperta e la gettai addosso a Luciana schiacciandole la testa e appiattendola sul letto con forza, mentre io mi sedevo simultaneamente sul letto e cercavo di coprire la sua figura col mio corpo mezzo nudo.

Tutto accadde in un istante, e mentre io avevo stravolto la posizione di Luciana e la mia, colto da un attacco di adrenalina che mi aveva svegliato completamente, si aprì la porta ed entrò il direttore dell’hotel in persona.

Direttore? – dissi, stupito di vederlo e mantenendo un’espressione, un tono della voce, una calma che sembrava che io fossi soltanto stupito di vederlo.

Oh! – disse lui – Mi scusi!

Uscì e chiuse la porta prima ancora di accendere la luce. Luciana rimase sotto le coperte e io fissai la porta. Mi alzai, presi una sedia e bloccai la porta mettendoci la sedia di traverso. Poi mi girai verso Luciana che aveva fatto sbucare la testa fuori dalle lenzuola.

Possibile che debba succedere tutto a me? – le chiesi.

Mi guardò l’uccello e mi chiese di scoparmela, la mandai a fanculo e chiamai la mia collega del ricevimento.

Cazzo – dissi – perché mi son ritrovato il direttore in camera?

Il direttore in camera?

Ma porca puttana! Possibile che non sapesse che c’ero io dentro la stanza? Possibile che sia così coglione?

Ma ha visto anche la tua ragazza?

Hmm… – sapeva che mi dava fastidio quando diceva che si trattava della mia ragazza, ma non potevo dirle “non è la mia ragazza” di fronte a Luciana, sarebbe stato troppo crudele, così decisi di ripeterglielo dopo che Luciana se ne sarebbe andata – non so se l’ha vista. Prova a indagare.

Riagganciai.

Mi ha visto? – fece Luciana.

Ma che cazzo ne so… – dissi, rimettendomi a letto e addormentandomi.

Lei provò ad accarezzarmi la schiena e a baciarmi delicatamente, ma io non ero dell’umore giusto per scoparmela. Non poteva mica pretendere di scopare sempre in qualsiasi situazione! Pensai di aver fatto un errore madornale a portarmela in albergo. Lei non aveva abbastanza buon senso per evitare catastrofi, quindi toccava a me, pensare bene a quello che le avrei chiesto di fare. Anche perché la risposta sarebbe stata quasi certamente un “sì”.

Verso mezzogiorno scrissi un messaggio alla mia collega. Telefonarle sarebbe stato troppo sospetto. Mi ero fatto la doccia e Luciana si era preparata per andarsene.

Com’è la situazione? – chiesi.

Aspetta.

Aspettai.

Passarono dieci minuti. Poi ne passarono venti. Poi era passata mezz’ora.

Allora? – scrissi.

Se è veloce può farcela.

Presi Luciana, mi ci misi di fronte, e le parlai chiaro.

Apro la porta e tu vai dritta a sinistra. Entri nella hall. Testa bassa, passo svelto, raggiungi la porta, la apri e fili fuori. C’è un cancello. Fiondati in strada. Uscita da lì, gira a destra e allontanati il più possibile dall’ingresso dell’hotel.

Ok.

Fuori.

La feci uscire e chiusi la porta. Mi vestii con comodo, uscii nel patio e mi assorbii qualche raggio di sole. Era una meravigliosa giornata senza vento. Dopo un quarto d’ora mi vestii e andai al banco del ricevimento. La mia collega era lì, in compagnia della responsabile delle prenotazioni.

Allora – disse – dormito bene?

Aveva una faccia che si vedeva che avrebbe voluto prendermi per il culo fino alla morte.

Già – risposi – qui è andato tutto bene?

Mi sorrise, mi disse di sì e proseguii per la spiaggia. Quando l’avrei trovata da sola le avrei detto che io la ragazza non ce l’avevo.

***

Passò qualche settimana e la stagione era finita, ed io ero ritornato al mio paese, nella mia casa. Finalmente. Avevo la casa nuova, non avevo ancora finito di pagarmela, me la volevo godere ma lavorando là, nell’albergo, non avrei potuto stare a dormire a casa mia. Troppo lontana. La vita sarebbe stata troppo faticosa e troppo dispendiosa, visto che l’alloggio me lo fornivano gratis i proprietari dell’albergo stesso. In quelle settimane in cui dormivo in hotel, mi scopavo Luciana in macchina. Scopavamo ovunque, specialmente a Cagliari. Andavamo ad appartarci nelle periferie più desolate, sotto ai ponti a bordo di ampie strade, luoghi in cui io avevo sempre paura di beccare qualche tossico, qualche barbone, qualcuno pronto a romperci i coglioni mentre scopavamo, insomma. È terribile scopare con quell’ansia addosso, specialmente in un luogo scomodo come la macchina, dove per di più chiunque ti potrebbe vedere, notare, spiare, attaccare.

Non successe mai niente e io e Luciana ci facemmo grandiose scopate dentro la mia macchina, in quei luoghi dimenticati dalla civiltà. Non ci privavamo di niente, dal sesso orale a quello anale alle posizioni più fantasiose ed eccitanti. Alla fine eravamo così abituati a farlo in macchina che neppure sentivamo la mancanza di un letto matrimoniale su cui farlo.

Quando tornai a casa mia, volli godermela tutta per me per qualche giorno. I miei libri, i miei quaderni, i miei vestiti, i miei film… andai felice a fare la spesa, mi organizzai con le pulizie, con le lavatrici, con la cucina… ero uno che amava essere organizzato per avere più tempo a disposizione. Non mi mettevo la fune al collo per fare questo o quell’altro, non lo prendevo mai come un vero e proprio dovere. Tutto quello che facevo puntava a farmi avere più tempo libero, tutto per me.

Riprendere i ritmi di vita diurni non fu immediato. Mi svegliavo nel mezzo della notte, e verso le otto di sera mi accorgevo che il mio fisico non reggeva più, collassava sotto il peso di un sonno troppo forte, troppo incombente per potergli resistere. E così mi coricavo. Non mi fregava un cazzo di quello che faceva la gente di fuori. In quei primi giorni decisi di non accendere neppure la radio (TV non ne ho mai avuta) proprio per non farmi condizionare dai ritmi altrui. Pranzavo alle quattro, cenavo alle sette, facevo una colazione abbondantissima verso le undici, o mezzogiorno, e fu così che andai avanti per alcuni giorni.

Ma Luciana non resistette a starmi lontana, e decise di venirmi a trovare a casa. Inizialmente fu una bella comodità. Veniva a casa, scopavamo, mangiavamo e scopavamo. Lei non aveva mai voglia di dormire, ma io le spiegai che per me era una necessità assoluta, ma lei niente, sembrava non capire questo mio bisogno e non mi risparmiava. Voleva sempre scopare, scopare, scopare. Scopava bene, e io non volevo rifiutare una buona scopata per un pochino di sonno. Pensavo, prima o poi recupererò il sonno perduto, e mi davo da fare con la sua fica. La pompavo, la leccavo, oppure quando ero stanco era lei a scendere sotto le lenzuola e prendermelo in bocca. E succedeva spesso.

Inizialmente veniva di venerdì per andarsene via il sabato. Poi iniziò a venire dal giovedì, per andarsene via il sabato. Poi cominciò a venire il giovedì e se ne andava via la domenica.

Io ho delle cose da fare – le dissi un giorno – non posso starmene a letto tutto il giorno.

Ed era vero. Avevo bisogno di dormire, di riposare e di scopare, certo, ma avevo anche un gran bisogno di mangiare, di cucinare la roba che mi pareva e che non potevo fare durante l’estate, perché vivevo senza cucina e di cibi crudi. Avevo bisogno di mangiare, di ripristinare un ritmo vitale che con quella presenza ossessiva e con tutto quel sesso non avrei potuto gestire.

Volevo dormire, volevo leggere, volevo mangiare regolarmente, e per mangiare dovevo cucinare, pulire, fare la spesa… insomma, dovevo fare le cose che mi permettevano di andare avanti. Ma lei niente.

Iniziò ad attaccarsi alla bottiglia del vino. Trovava del vino in frigo e si ubriacava sempre più spesso. Poi l’abitudine divenne quotidiana. Poi iniziò a portarsi dell’erba in casa mia, e al vino aggiungeva anche le canne. Il vino e l’erba la aiutavano a stare meglio, a tranquillizzarsi, probabilmente. Iniziò a sentirsi a disagio, a casa mia, e allora beveva e fumava. Un giorno le feci un discorso che secondo il mio punto di vista avrebbe potuto aiutarla, ma si sa, non sempre le cose vanno come si vorrebbe.

Non devi sentirti a disagio – le dissi – fai come se fossi a casa tua, semplicemente non impedirmi di fare la mia vita. Io ho bisogno di riprendere in mano una vita che ho dovuto sospendere per cinque mesi, capisci?

Ceeertooo! – diceva, con un tono rassicurante e convinto.

Bene – feci – allora fai pure quello che faresti in casa tua. Portati dei libri per studiare, qualcosa da leggere… fai quello che vuoi, insomma, ma io non posso starti dietro in ogni momento della giornata, ok?

Mi era tornata la voglia di scrivere, dopo alcuni giorni di stallo causato dal cambio di orari e di metabolismo. Non volevo lasciar perdere la scrittura. Avevo bisogno di metodo e disciplina. Dovevo continuare a scrivere, riprendere in mano l’attività e pompare finché tutto non si sarebbe esaurito. Inizialmente Luciana sembrò aver capito, e si mise addirittura a darmi una mano per pulire e fare i mestieri di casa. Ero contento di vederla così impegnata e disinvolta, anche se percepivo una certa forzatura nelle sue azioni, ma non m’importava. Pensavo che più si attivava in casa e più si sarebbe trovata a suo agio.

Quel giorno di attività casalinghe, spostando un cavatappi, le cadde per terra e mi fece un buco nel parquet. Poi mentre spazzava per terra diede un colpo ad una bilancia di vetro e la frantumò in mille pezzi. Dopo aver raccolto il vetro uscì fuori per buttarlo nel bidone ma la zanzariera era chiusa, lei non se ne accorse e la sfondò. Poi per calmarsi si versò un bicchiere di vino e il bicchiere le cadde dalle mani. Era un disastro. Era un danno continuo. Cercavo di sorriderle sempre, non era mia abitudine cacciare a calci nel culo le persone che in casa mia non ci facevano niente, ma lei non capiva di essere in più. Iniziò a fare la vittima. Iniziò con le crisi di pianto.

Mi raccontò che suo cognato, quando aveva appena diciotto anni, ci provò con lei. Dopo anni aveva raccontato la cosa in famiglia e nessuno le credette, ma nessuno le andò contro. Poi mi disse che il padre era un alcolizzato che la riteneva stupida, e che quando si era laureata lui si era stupito del fatto che ce l’avesse fatta. Mi raccontò che quando andava a vedere i suoi genitori la facevano dormire in una cantina buia, mi disse che a volte smetteva di parlare con le persone anche se erano amicizie molto strette perché lei aveva bisogno di cambiare. Poi, dopo che mi raccontava queste cose cercando di trattenere le lacrime che non sembravano neppure esserci, ma capivo che stava per piangere per la contrazione dei muscoli della faccia, che la rendevano veramente brutta, dopo tutte queste crisi di pianto bloccate, all’improvviso si girava da me con la faccia più dolce del mondo, sorridendo e usando un tono di voce pacato e gentile. Io mi tranquillizzavo in quello stesso istante, pregando gli dei che fosse finita, ma appena si rigirava il viso le si contorceva di nuovo e diventava di nuovo brutta e lagnosa.

Un giovedì stava per arrivare in treno. Io ero andato in stazione circa un’ora prima non perché avevo sbagliato orario, ma perché avevo delle cose da sbrigare nelle vicinanze, ci avevo messo meno del previsto e decisi di starmene lì, al fresco, sotto il cielo della notte ad aspettare il treno in una stazione deserta. Dopo mezz’ora iniziai a rompermi i coglioni, e pensando che anche lei, sul treno, non poteva essere impegnata più di tanto, decisi di chiamarla per chiederle come procedeva il viaggio.

Beeeneee! – mi fece, con quel tono consolatorio e rassicurante – Son qui che leggo un libro di un autore che mi piace parecchio…

Stava leggendo un mio libro.

Ti ho chiamata giusto per sentirti, così ci facciamo un pezzo di viaggio assieme, che ne dici?

Graaazieee! Ma io volevo continuare a leggere…

Ah – risposi – allora ti lascio in pace! Ci vediamo tra poco, buon viaggio!

Sììì… graaazieee!

Ero contento. Finalmente mi aveva detto che voleva fare qualcosa lei, aveva preso un’iniziativa. Si stava sciogliendo, allora. Pensai che sarebbe stata una buona serata.

Quando arrivò cominciò a parlare delle amiche, degli amici, delle cose che faceva a lezione, delle cose che facevano ridere a lei e alle sue amiche. Io rispondevo che forse non ridevo perché sarebbero state più divertenti se le avessi vissute, ma non trovavo niente di divertente in quello che raccontava. Allora continuò di questo passo, raccontandomi storie per cui lei diceva di divertirsi tantissimo, ma che a me restavano indifferenti. Lei vedeva la mia indifferenza, e insisteva su quel tragitto, ma la cosa peggiorava, e lei si sentiva sempre più indietro, finché non cambiò radicalmente arma e si fece venire una delle sue crisi di pianto. Mi disse della madre, che stava male, del padre che l’aveva chiamata, della sorella che non l’aveva chiamata, del cognato che le aveva parlato, dell’amica che si era ubriacata. E il suo viso si contorceva, le mandibole si stringevano, le guance s’irrigidivano, il naso si allungava e la fronte si strizzava. Era di nuovo brutta.

Le diedi del vino, iniziò a bere e mi finì la bottiglia. Chiese della birra. Poi andò in bagno e non so come mi finì un intero rotolo di carta igienica appena iniziato. Poi venne a letto e me la scopai, scopammo diverse volte, e quando mi girai per dormire iniziai a sentirla piangere di nuovo. Mi girai, le chiesi cosa aveva e me la scopai di nuovo. Finalmente riuscii a farla addormentare. Furono dei giorni terribili, in cui parlava e parlava, e io ascoltavo finché ne avevo, poi il mio cervello metteva le braccia conserte e se ne infischiava alla grande dei suoni che gli arrivavano tramite le orecchie. Mi accorsi che ripeteva sempre le stesse storie, e quando mi chiedeva se qualcosa me l’aveva già detta, e io rispondevo di sì, lei la ripeteva lo stesso alternando al racconto delle risate isteriche che, di tanto in tanto, inframmezzava con le sue crisi di pianto.

Ormai avevo finito di interessarmi sia delle cose che la divertivano che delle cose che la intristivano. Mi aveva prosciugato. Se accennavo un’interruzione ai suoi monologhi, o facevo una battuta per cambiare discorso, o mi alzavo per stendere, o per sbarazzare, o per cucinare… qualsiasi cosa facessi o dicessi sembrava offenderla. Era come se io, per non darle l’impressione che la snobbassi, dovessi rinunciare a fare qualsiasi cosa mentre parlava. Che sarebbe la cosa giusta da fare, se la persona che parla ogni tanto sta zitta. Luciana non stava zitta mai.

Se ne andò la domenica mattina come di consueto, la salutai e tirai un sospiro di sollievo. Fino a giovedì sarei stato libero di fare quello che volevo, di riprendere un ritmo di vita sano, umano, normale, spontaneo. Pulii la casa, riordinai il casino, cucinai, feci la spesa. Ero di nuovo felice.

Mercoledì al telefono Luciana era come di ghiaccio. Rispondeva con dei monosillabi insensati, parlava a sprazzi e diceva delle cose che saltavano di palo in frasca, le chiedevo spiegazioni e lei diceva di lasciar perdere, ma sempre con un tono brusco. Sembrava incazzata. Chiesi cosa avesse, disse niente. Glielo chiesi di nuovo, e mi disse che si era offesa per quello che avevo fatto il giovedì precedente.

Giovedì scorso? – dissi – Che cosa ho fatto?

Non avevo idea a cosa si riferisse. Mi aveva distrutto mezza casa e non avevo detto una parola, figurarsi se potevo essermi comportato male quando non aveva fatto altro che parlare. Che si fosse accorta di avermi sfinito coi suoi monologhi ripetuti?

Quando mi hai chiamato, ed ero in treno.

Avevo presente la scena. L’avevo chiamata quando era in treno.

Mi hai chiamato per farmi capire che ti pesava venirmi a prendere.

Iniziai a pormi delle serie domande sulla salute mentale di Luciana.

***

Ormai ero esausto dalla presenza di Luciana. Era diventata una presenza negativa, e lo sapevo bene. Quando la vedevo, o la sentivo, o addirittura quando ricevevo un suo messaggio tutto ciò che di buono mi circondava spariva. Il mio umore peggiorava. Non c’era niente da fare, non riuscivo a migliorare la mia percezione nei suoi confronti.

Tuttavia pensai bene a tenermela stretta. Era dopotutto una che mi garantiva delle buone scopate. Non volevo mancarla di rispetto, credevo che non se lo meritasse… non volevo mica fare lo stronzo, io. È solo che era talmente votata al sesso che, avendola in pugno, non potevo non pensare ad approfittarne per esaudire qua e là qualche piccola fantasia sessuale un po’ spinta…

Il mio atteggiamento sempre più vago e sempre più distaccato provocava la reazione contraria a quella che avrebbe dovuto avere: si avvicinava sempre di più, la sua ombra copriva me e sempre più cose, di quelle che mi stavano attorno. Il mondo diventava buio, la sua presenza ingombrante, il suo sorriso forzato era sempre più ampio e la sua frenesia nel volermi sentire o vedere celava sempre meno il suo vero spirito. Soffriva come un cane, quella povera ragazza, e non sapeva come fare a smettere di dannarsi l’anima.

Venne a casa mia e decisi di chiuderla lì. Non era la prima volta che pensavo di parlarle seriamente e rispedirla a casa sua usando le maniere garbate e gentili. Ma ecco cosa succede quando si è garbati e gentili con le persone. Si dicono le cose come stanno, si cerca di indorare la pillola… si cerca di rendere meno spietato, tramite il linguaggio, il succo del discorso, ma tutto questo non funziona. No. Quando si dicono delle cose spiacevoli in maniera troppo gentile, il significato di quelle cose passa, non so come, in secondo piano. E allora si viene considerati lunatici, se poi le si ripetono in modo diverso. Schizofrenici, pazzi, bugiardi, stronzi, bastardi, assassini, maniaci, ipocriti, carogne. Se invece le cose si dicono così, senza pensare troppo alle parole che si usano, e si sbatte la realtà sul muso della persona cui la si vuole presentare, allora non si è né schizofrenici, né pazzi, né bugiardi. Ma solo degli stronzi, dei bastardi, degli assassini, dei maniaci, degli ipocriti e delle carogne.

Avevo provato più volte a dire a Luciana che il mio interesse per lei stava svanendo in modo catastrofico ed irrimediabile, ma la finivamo sempre a scopare. Mi prendeva l’uccello in bocca e cominciava a succhiare, senza fermarsi, senza tregua, e si sa. Se una donna punta tutto sul sesso, l’uomo lo può davvero diventare, stronzo. E anche bastardo, assassino, maniaco, ipocrita e carogna.

Avevo valutato questa mia debolezza, questo mio non saper resistere alle sue avances sessuali, e così mi programmai bene tutto quanto. Decisi di invertire le cose. Decisi di scoparmela prima, scoparmela tanto da sfinirla, da renderla inutilizzabile, sfiancata, distrutta. Poi, dopo il tormentoso stravolgimento sessuale, avrei detto a Luciana come stavano le cose, in modo da non cedere più alla sua voglia di scopare che, almeno nei cinque minuti successivi alla Grande Scopata, sarebbe stata meno preponderante del solito.

Era venuta direttamente il sabato. La domenica se ne sarebbe dovuta andare. Avevo cercato delle scuse per non farla venire il giovedì, in modo che il mio piano non sarebbe crollato a causa della sua presenza in casa mia. Era un metodo spietato, quello che avevo trovato, ma purtroppo non avevo a disposizione altre soluzioni. Dovevo chiuderla. Ma prima di chiuderla sarei stato stronzo e tutte quelle cose che, comunque sarebbe andata, mi sarebbero state unanimamente riconosciute dall’universo femminile.

Durante il pranzo lei mi fece capire che aveva, caso strano, voglia di scopare. Le dissi di andare sotto il tavolo e prendermelo in bocca. Così, mentre io mangiavo, lei mi sbottonò i pantaloni, me lo tirò di fuori, e cominciò a succhiare. Quando stavo per venire mi alzai, sborrai nel suo bicchiere di vino e le dissi di berlo. Lo fece. Finii di mangiare, poi mi alzai. Le dissi di spogliarsi e di riprendere a succhiare.

Era nuda e faceva tutto quello che le stavo dicendo. Dovevo farlo per prepararmi alla miglior prestazione sessuale della mia vita. Dovevo eccitarmi, e in quel modo riuscivo a non pensare a quanto Luciana non mi piacesse più. La feci salire in camera da letto, sempre nuda. La legai e la bendai. La misi in ginocchio sul letto e poi la piegai in avanti. Si reggeva con la testa. Glielo ficcai dentro e nel frattempo aprivo il preservativo. Iniziò a gemere e godere. Si muoveva col culo e io le davo delle sberle fortissime che la facevano gemere ancora di più. Mi misi il preservativo e cominciai a scoparla, tenendola per i capelli ed infilzandola il più forte che potevo. Mi sentivo un treno. Cominciai a scoparmela in tutte le posizioni, le slegai i polsi e le tolsi la benda, la insultavo e la scopavo sempre più forte. A lei piaceva da impazzire. Non potevo venire, ma mi aveva appena fatto una pompa, e non c’era pericolo. Ero un bagno di sudore, e lo era anche lei. Continuai a scopare ad un ritmo forsennato, picchiavo e picchiavo, con lei che godeva e cercava di non strillare. I miei insulti la eccitavano e io non le davo tregua.

Non so se veniva, in realtà. Non ne sono mai stato sicuro. Di solito mi accorgo quando una ragazza viene. È naturale, tutti se ne accorgono. Lei godeva, godeva fino ad impazzire, ma non si contorceva, non s’irrigidiva, non si faceva mai prendere dallo strazio dell’orgasmo che occupa, che rapisce, che violenta. Godeva costantemente ma non veniva mai. Almeno secondo me. Aveva l’aria di chi fosse sempre al limite dell’orgasmo, di chi lo sta per raggiungere ma che non riesce a venire.

La rimisi a pecora e mi misi dell’olio d’oliva sulla punta dell’uccello. Glielo schiaffai nel culo. La feci strillare e la pompai forte, sempre più forte, la sculacciai e la scopai, finché non le sborrai dentro. Uscii e mi sdraiai.

Mi misi nella mia parte del letto e cercai di riprendere fiato.

La prima parte era andata, ero soddisfatto del lavoro fatto. Adesso avrei dovuto raccogliere i pensieri quanto più in fretta potevo. Non avrei dovuto darle il tempo di riprendersi.

Come è stato? – le chiesi.

Bellissimo – fece lei, ansimando.

Non sei venuta – le dissi, duramente.

Sììì che sono venutaaa – rispose, sempre affannando e usando quel tono di voce dolce e gentile che mi dava sui nervi, perché non era vero. E si capiva.

Secondo me non sei venuta. Secondo me non sei mai venuta.

Silenzio. Avevo toccato il tasto giusto, e continuai la pantomima. Era crudele ma dovevo farlo.

Fra l’altro per me non è stata una scopata come le altre.

È veeerooo – rispose – è sempre meglio con teee.

Il fatto che usasse quel tono mi facilitava il compito. Mi infastidiva e la pietà se ne andava a farsi benedire.

No, non intendevo in quel senso. Mi è sembrato tutto meccanico. Mi è sembrato tutto freddo, apatico. Non c’era sentimento.

Quello era vero. Il sentimento era scemato notevolmente dopo le assurdità che aveva tirato fuori. C’era anche stato un momento in cui avevo sentito qualcosa, per lei… provato qualcosa di buono, di positivo… ma era crollato tutto in pochi attimi.

Forse per via delle discussioni…

Già, forse per via di quelle… a che ora parti domani?

Sarebbe partita alle dieci del mattino. Mi addormentai ed erano già le nove. La accompagnai in stazione e la salutai freddamente. Dalla sera stessa decisi di non sentirla più.

Ma non è mica facile, non sentire più una persona così, da un momento all’altro. Mi cercava, mi scriveva e mi chiamava in continuazione. Per alcuni giorni le rispondevo una volta ogni due, o tre messaggi che mi mandava. Rispondevo con dei monosillabi, sì o no, o usando comunque il minor numero di parole possibile. Ma questo mio allontanamento provocò una sua ulteriore presenza sempre più pressante e totale, finché non decisi di scriverle un messaggio che faceva più o meno così:


Ciao Luciana, scusami se in questi giorni posso sembrarti stronzo. Sono molto impegnato e non ho molta voglia di vedere né sentire nessuno. Mi farò vivo io quando sarà il momento.


Non mi era sembrato di aver lasciato troppa libertà d’interpretazione a proposito, così tirai un bel sospiro di sollievo e cancellai il suo pensiero in un baleno. Ce l’avevo fatta. Ero stato bravo, quel sabato sera, a mettere in atto il mio piano perfetto. Non potevo fare niente di meglio. Esultai e mi lodai, ero un amante straordinario, rispettoso dei sentimenti e paladino dell’amore, nessuna avrebbe mai potuto parlar male di me, ero un cavaliere, un gentiluomo, un…

Luciana continuò a scrivermi come se non avesse mai ricevuto il mio messaggio. Scriveva e chiamava, mi voleva sentire in continuazione, rideva e faceva battute che non mi facevano ridere, giocherellava con la malizia e parlava di sesso, cercava di toccare i punti a modo suo sensibili e di fare la figura di chi non avesse mai avuto quelle crisi matte e paranoiche che avevano prodotto in me un’immagine lontana da quella che mi ero creato all’inizio.

Dopo tre giorni che continuava a scrivermi, le mandai un messaggio. Fui lapidario. Vista la situazione, e visto come ogni mio interesse nei suoi confronti era scomparso, sarebbe stato il caso di non vederci né sentirci mai più.

Io, voglio essere onesto, non sono fatto così. Mi sento, a volte mi vedo con ragazze con cui sono stato, o con cui ho semplicemente scopato. Non sono uno di quelli che vuole cancellare i rapporti interpersonali, ma con Luciana decisi di farlo. Non avrei avuto nessun interesse, d’altronde, a frequentare una ragazza che ormai suscitava in me solo un sentimento di pena. Era una ragazza sofferente che poteva essere interessante solo quando stava dietro la maschera dell’hippie e della donna libera, emancipata e che se ne sbatte del mondo.

Una volta tolta la maschera, l’unica cosa che contava per me era la sua negatività e la turbolenza interna che la dilaniava costantemente. Non avrei retto un’amicizia simile, così decisi di troncare.

Non appena le scrissi che non avrei più voluto vederla né sentirla, tanto per cambiare, mi chiamò. Un’ora di telefono in cui mi chiese cosa era successo, come se non ci fossero state premesse a sufficienza per arrivare a quel punto. Mi disse che forse stavo esagerando, che probabilmente era una decisione affrettata… mi disse di prendermi il mio tempo, che mi avrebbe lasciato il mio spazio… mi promise che sarebbe cambiata, che avrebbe fatto di tutto per…

Fu un discorso ancora più rivoltante di quanto non fosse diventata la sua presenza. Ogni parola che aggiungeva mi sembrava sempre più ridicola e letale. Fu un suicidio, e io lo riconobbi come tale.

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