L'Uomo Arancia

Letteratura d'assalto. In crisi. Dal 1989

Ritorno alla parola

Con calma. Lasciatemi accendere una sigaretta, prima di iniziare. E' tanto che non scrivo. Nemmeno qui, che è casa mia. Qualcosa su un vecchio quaderno, ma niente di che.
Son fermo da anni, sapete. Arrugginito. Mica semplice tornare ai livelli cui vi avevo abituati. Poesie, pubblicazioni... Un progetto c'è, è avviato e anche a buon punto. E' terminarlo, che richiede tempo e lavoro. Perfezionarlo, cercare di renderlo piacevole. Ciò non toglie che ce ne vorrà, di tempo, prima che finisca queste righe. Specialmente perché non so esattamente dove andrò a parare, se proprio devo essere sincero. Ma qualcosa sì, la voglio scrivere. La ruggine bisogna levarla, è una questione di volontà. Vivo all'estero da troppo tempo e la mia lingua mica me la posso dimenticare del tutto. Lavoro, pure io. Mi faccio spremere come ciascuno di voi. Ma son stato scaltro, lo devo ammettere. Mica faccio quaranta ore. Modestia a parte, mi son scelto un lavoro che mi si addice. Lo faccio da più di dieci anni, ormai. Dopo aver cambiato a destra e a manca, sballottato da una parte all'altra del pianeta, finalmente ho messo le radici. Un albero di arance, son diventato. Messo su famiglia, diventato responsabile. Convinto che a una certa età le forze avrebbero iniziato a mancarmi, la voglia dell'avventura, dei radicali stravolgimenti esistenziali sembrava finita. E così mi sono adagiato. E mi piace, fra l'altro. Mica l'ho sbagliata, a fermarmi. Eppure qualcosa, dentro, sento che si sta muovendo. Come se dopo anni di torpore quella perduta vitalità rabbiosa che mi ha contraddistinto per un certo periodo della mia vita si stesse risvegliando. Che sia il Covid? Che sia la quarantena? I colori dell'Italia, l'aggressività dei social, l'obbligo di indossare la mascherina? Il distanziamento sociale? O le svariate regolamentazioni fra i Paesi, i tamponi, l'assenza di voli per tornare a casa? I raggiri dei vaccini, la chiusura dei luoghi pubblici, delle piscine, dei ristoranti, dei bar...? Ah, i bar... quanto mi mancano i bar... quanto mi manca quella società ignota che mi circondava mentre, seduto, prendevo note su un taccuino accompagnato da un bicchiere amico. Quelle mattine, dico, passate a fare colazione da solo, quelle voci inascoltate che impregnavano l'aria mentre io guardavo, osservavo, memorizzavo... ah quanto mi manca la vita che facevo prima della pandemia...
Il lavoro è diventato cruento. Nessuna protezione, nessuna possibilità di rispondere alle angherie subite da parte di chicchessia, nessun potere. Sguardi, gesti, linguaggio del corpo. Svanito tutto. Rimane uno schermo attraverso il quale non si percepisce niente di umano. Anche io, col lavoro remoto, sono diventato una macchina. Parte integrante di un sistema interamente digitalizzato. Sono una delle moltissime figure che compaiono nello schermo di moltissime persone. Nessuna importanza, nessuna forza. Non spicco. Non ci riesco, a spiccare. Non posso, non si può spiccare, secondo me. Non si può attrarre l'attenzione, guadagnarsi credibilità, ottenere la meritata e sudata autorevolezza di cui si ha bisogno nel mondo del lavoro. Il mio volto non è altro che un insieme di piatti pixel che, uniti, formano una figura piatta. La mia voce è elettronica, scostante e interrotta. Il tono può essere regolato da delle manopoline sulle casse collegate al pc. Mi hanno digitalizzato e non valgo più di uno schermo, perché io sono nello schermo. Sono incorniciato, almeno quello... ma no. Non è una cornice. E' piuttosto un confine, una gabbia dalla quale non posso uscire, non posso spaventare, non posso incutere nessun tipo di timore. Non posso farmi rispettare. Probabile oggetto di gestacci e volgari insulti pronunciati, chissà, magari a urla, ma che io non sento. Che non posso sentire perché il microfono, dall'altra parte, è spento. Non è neppure come essere al telefono. E' peggio, molto peggio. E' il regno dei codardi, di coloro per cui la menzogna è diventata parte integrante del loro modo di essere. La menzogna è diventata gratuita. Questo è il mio lavoro, questo è il lavoro della maggior parte di tutti noi. Nessun contatto umano, ci nutriamo dell'illusione di un'autorità guadagnata. Autorità virtuale, però, quindi fittizia.
A queste assurdità si aggiunge il fatto che adesso lavoriamo a casa, il luogo sacro per eccellenza. La dimora presso la quale dovremmo sentirci riparati dalla pioggia di fango che ci ricopre quando siamo fuori dalle nostre quattro mura. Hanno trasformato il focolaio domestico in un'ufficio. In un posto atto a guadagnare soldi o, ancora meglio (peggio), a far guadagnare soldi a quelli per cui lavoriamo. La nostra casa, il tempio in cui la nostra vita privata esiste. In cui noi viviamo ed esistiamo. La nostra casa è diventata parte dell'inarrestabile sistema capitalistico in cui siamo immersi e sempre più strettamente avviluppati.
Il Covid... hanno proprio trovato la scusa giusta, questi vili, per limitarci ancora di più. Non bastavano i palazzi da centinaia di appartamenti come fossero gabbie per conigli. Non gli bastavano le marche, il fast food, Hollywood, il turismo di massa, le multinazionali. No, che non gli bastava. Adesso non possiamo neppure più uscirne, dalle gabbie in cui ci hanno rinchiusi. Il nostro tempo è oramai a piena disposizione dei nostri capi. Hanno inabissato la vitale differenza fra i concetti "casa" e "lavoro". Si dice che non c'è mai fine al peggio, ma adesso mi riesce difficile pensare a qualcosa di più profondamente schiavista della situazione in cui tutti noi ci troviamo.
Il succo d'arancia è fresco e dolce, dopotutto. E l'avidità capitalistica fa sì che non sia mai abbastanza.

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